lunedì 7 settembre 2015

La Stampa 7.9.15
Renzi alla minoranza del Pd: basta veti, la base sta con me
Il segretario alla festa dell’Unità: se votano no sul Senato, i sì saranno molti di più
di Carlo Bertini


È vero che quando grida «sui migranti non c’è un Pd contro le destre, ma esseri umani contro bestie», partono gli applausi contro il nemico leghista, che qui a Milano è la vera bestia nera. Ma quando dice non si può «passare il tempo a rincorrere la discussione sulle correnti, mentre i problemi sono questi!», al giardino Montanelli dove è radunata la base Pd per il comizio finale del segretario alla festa nazionale, rito liturgico che va avanti da decenni, partono i cori, «Matteo, Matteo!». Ed esplode l’ovazione più fragorosa: ma non di apprezzamento, tutt’altro. E il bersaglio si sa quale sia, anzi sono due, si capisce quando il leader rigetta la tesi del Pd «partito personale». Uno Renzi lo nomina, ed è Massimo D’Alema: la sua frecciata sul Pd che ha «perso la connessione sentimentale» con il suo popolo ha lasciato il segno e il premier fa di tutto per smontarla. Citando i 500 mila che hanno dato il due per mille, promettendo di far lievitare le sezioni da 6500 a 10 mila. L’altro bersaglio è Bersani, che non viene citato per nome, ma quando lancia l’avviso urlato con voce roca che se qualcuno voterà contro sulla riforma costituzionale, «la forza di quelli che diranno si sarà molto maggiore», parte subito la seconda ovazione. Come a dire che non si può spaccare il partito su un tema che la base non sente. Quella base scaldata con la lista delle cose fatte: con il Jobs act che ha abolito le dimissioni in bianco, con la legge sulla responsabilità civile dei giudici che si richiama al caso Tortora; con quella sul divorzio breve; e con le norme contro la corruzione, con la battaglia in Europa sui migranti da accogliere in tutti i paesi Ue. Dietro questa sfilza di risultati, la battaglia interna con un pezzo del suo partito incombe come una nube, in platea lo ascoltano Stumpo e Speranza, i bersaniani sanno dove vuole andare a parare il premier. Uno dei suoi fedelissimi dice: «Non lo vedono il nostro popolo da che parte sta e cosa vuole?». Tradotto, faranno bene ad accontentarsi della mediazione sul listino di senatori eletti insieme ai consiglieri regionali, perché «di ricominciare da capo non se ne parla».
Si presenta in camicia bianca e cravatta rossa e blu, Matteo, fa un breve saluto ai militanti senza girare gli stand, drappelli di contestatori che gli urlano “a casa, a casa” sconsigliano un giro troppo largo. A un certo punto, fa pure il magnanimo Renzi, «il Pd ha pure una funzione sociale, se qualcuno vuole sfogarsi accogliamolo con un abbraccio...».
Ma si concede il bagno di folla intorno al palco prima di salire. Lancia segnali mirati. Uno a Pisapia sul nodo del futuro candidato sindaco qui a Milano, «caro Giuliano, deciderai tu cosa vuoi fare da grande, noi siamo sempre al tuo fianco». Un altro ai sindacati, «facciamo insieme almeno una cosa, la guerra al caporalato, invece di litigare sempre». L’ultimo alla sua minoranza. «Bisogna essere chiari: ora con l’italicum se un parlamentare non ha votato la fiducia al governo deve fare la fatica di venire a spiegarlo nei territori». «Prendili a calci», gli urla un arrabbiato. «No, siamo democratici». «Allora abbracciali!». «Non esagerare, una via di mezzo. Noi siamo sempre disponibili al confronto, ma se qualcuno pensa di usarlo per dire no e ripartire da capo con la vecchia politica del no, la forza di chi dice si sarà molto maggiore». E la base che chiede unità lo omaggia a dovere.