domenica 20 settembre 2015

La Stampa 20.9.15
Riforme, nel Pd accordo e poi lite
Botta e risposta Bersani-Boschi
L’ex segretario: “Il Senato dev’essere elettivo. Sia chiaro”. Il ministro: non metta veti
di Ugo Magri


L’intesa sul Senato ancora regge. Ma per poco ieri Bersani non ha mandato tutto all’aria con una dichiarazione forse casuale (gliel’hanno carpita nel corso di una visita a Brescia), probabilmente mal calcolata, che tuttavia nei toni dà l’impressione di voler mettere in riga il premier. Come se fosse la minoranza Pd a tenere il coltello dalla parte del manico e non, questo va sostenendo Renzi, l’esatto contrario... Per di più Bersani è tornato a insistere sulla natura elettiva del Senato, pretendendo che venga messa nero su bianco, prendere o lasciare, «di qui non si scappa». Grande irritazione nel «Giglio magico» renziano e non solo in quello. Replica serale della Boschi: «La maggioranza non mette veti, ma nemmeno deve metterli la minoranza». Sennò ricominciamo a litigare.
Al netto della propaganda, però, scornarsi non conviene a nessuno. Non alla minoranza, che rischia di essere asfaltata, e tutto sommato nemmeno al premier. Per cui domani, quando si riunirà la direzione Pd, è improbabile che qualcuno voglia rimettere in discussione le intese. Addirittura, la maggioranza renziana sta tentando di estenderne la portata: desidera che il patto con la sinistra valga non solo sull’articolo 2, ma su tutti quanti gli emendamenti della riforma in modo da evitare in aula strane sorprese. E poi, sempre in queste ore, si sta cercando di conquistare alla causa qualche pezzo di opposizione, impresa quasi disperata ma necessaria per far vedere che la futura Carta repubblicana nasce da un largo consenso parlamentare e non dal compromesso tutto interno al Pd tra Renzi e Bersani. Contatti con la Lega sono stati avviati, qualche concessione sul federalismo a patto che Calderoli in cambio ritiri i suoi 500mila emendamenti e semplifichi la vita a tutti.
Con la minoranza Pd allineata e coperta, Renzi può contare teoricamente su oltre 180 voti. Per andare sotto sulla riforma, dovrebbe perderne lungo la strada almeno una trentina. Quasi nessuno crede che ciò possa accadere. L’unica incognita riguarda ormai esclusivamente le votazioni a scrutinio segreto. Se ne prevedono una ventina sull’articolo 1, in fondo il più importante perché serve a chiarire di cosa andrà a occuparsi il futuro Senato. Tutti gli attuali membri di Palazzo Madama concordano che, durante il passaggio alla Camera, le competenze sono state «tosate» con qualche eccesso di zelo. L’intenzione di ripristinarne alcune è condivisa tanto al centro quanto a destra e a sinistra. Però attenzione: se nel segreto dell’urna il Senato dovesse ricevere funzioni in eccesso, beh, in quel caso avremmo il paradosso di far rientrare dalla finestra quel bicameralismo che si era cacciato dalla porta.
A sentire gli umori dell’aula, non pochi centristi sarebbero tentati di percorrere quella via. A maggior ragione dopo che Alfano, l’altro ieri, ha consentito al suo partito in Sicilia di imbarcarsi nella maggioranza guidata dal governatore Crocetta: chiaro segnale, secondo i più, di una scelta di campo orientata a sinistra. Contro la svolta siciliana si sono scatenati un po’ di parlamentari Ncd, da Mancuso a Bosco, da Garofalo a La Via. Altri come Giovanardi, Sacconi o Formigoni di certo non le manderanno a dire. Ma se la minoranza Pd resterà fedele ai patti, la somma dei «franchi tiratori» centristi non raggiungerà mai una massa critica sufficiente a far detonare la riforma. E la «fronda» Ncd non potrà che sciogliersi senza lasciare traccia.