mercoledì 2 settembre 2015

La Stampa 2.9.15
I numeri e le troppe verità
di Francesco Manacorda


Brindare o - come direbbe il premier - «gufare»? Festeggiare una revisione dei dati che nel secondo trimestre dell’anno porta la crescita del Pil dallo 0,2 allo 0,3% o invece farsi beffe di una ripresina che va avanti a colpi di decimali? Confortarsi per i 180 mila occupati in più da aprile a fine giugno o stracciarsi le vesti per una disoccupazione giovanile che anche in luglio resta sopra il 40%?
Guardare i dati dell’economia attraverso le lenti della polemica - se non addirittura della propaganda - politica porta quasi sempre a una visione deformata della realtà. E soprattutto non permette di esaminare quella realtà con il dettaglio necessario anche per capire quali misure stanno funzionando e quali no. Dunque, bene che il Pil del secondo trimestre risulti migliore di quello che era stato calcolato in via preliminare dall’Istat. Se anche nei prossimi sei mesi si mantenesse questo ritmo di crescita, a fine anno si potrebbe arrivare a un aumento del prodotto interno dello 0,8% rispetto all’intero 2014. Niente di che, commenteranno i critici ad oltranza.
Ma comunque leggermente meglio delle previsioni circolate finora e soprattutto del -0,4% dello scorso anno.
Se però si gratta sotto quello 0,3% di aumento nel secondo trimestre, qualche preoccupazione in più può affiorare. A spingere la crescita del Pil, infatti, sono stati i consumi interni, mentre gli investimenti fissi sono scesi dello 0,3%. Insomma, l’economia gira un po’ di più anche perché gli italiani hanno ripreso - moderatamente - a spendere e consumare. Ma chi invece spende di meno sono le imprese per i loro investimenti. È un campanello d’allarme? Solo in parte, perché il grosso di questo rallentamento viene dagli investimenti in costruzioni, mentre gli investimenti in macchinari - quelli che dovrebbero garantire lo sviluppo futuro - crescono.
Allo stesso modo i dati preliminari di luglio sull’occupazione offrono spazi di soddisfazione: il tasso di disoccupazione scende al 12% dal 12,5% di giugno, Anche qui, però, non tutto brilla: se gli occupati sono 44 mila in più, il grosso della spinta al calo della disoccupazione viene dall’aumento dei cosiddetti «inattivi» (chi non lavora né cerca lavoro), che aumentano di 99 mila persone, riducendo così la popolazione attiva; e nel secondo trimestre dell’anno l’aumento dell’occupazione dello 0,8% è spinto da chi ha più di cinquant’anni, mentre per i giovani sotto i 34 anni l’occupazione cala.
Su questi dati, non univoci, pesano poi fattori che stanno anche fuori dall’Italia e dall’Europa. Il crollo della Borsa cinese rischia di limitare i consumi di un’enorme e nascente classe media; le sanzioni che continuano contro la Russia privano i nostri esportatori di un importante mercato di sbocco; il rialzo dei tassi che si avvicina negli Stati Uniti potrà avere effetti sulla ripresa americana e influenzare anche i nostri produttori. Ma questi sono fattori sui quali appunto l’azione del governo e delle imprese non possono influire. Quello che in Italia si può fare e va fatto, invece, e proseguire sulla strada che i numeri ci indicano: creare i presupposti perché le imprese possano investire e portare nuova occupazione. Giusto l’ottimismo, allora, ma prima di brindare alla ripresa converrà concentrarsi su quello - ed è tanto - che resta da fare e aspettare dati più consistenti.