il manifesto 2.9.15
I “numerini” su occupazione e Pil
Giù la disoccupazione, migliora la crescita. Ma a trovare posto sono soprattutto i più anziani
I dati sugli inattivi mostrano che l’area del disagio è ancora vasta
Aumentano i precari più degli stabili
di Marta Fana
Erano attesi i dati dell’Istat sull’occupazione, soprattutto dopo la figura non lungimirante del ministero del Lavoro e l’infaticabile opera del governo, lo storytelling del premier Matteo Renzi, che denigra la statistica ufficiale relegando il tutto a un «sono soltanto numerini».
Nel trimestre del 2015, il tasso di occupazione aumenta dello 0,6% su base annua, attestandosi al 56,3%, accompagnato dall’aumento del numero degli occupati (+180 mila unità), che ha inizio quindi ben prima delle riforme del governo Renzi. Entrambe le componenti di genere sono interessate da questo aumento, mentre lo stesso non si può dire per i gruppi anagrafici: come per il primo trimestre, i nuovi occupati sono solo over 50. Un fatto da rispedire ai mittenti della propaganda del Jobs Act: i giovani continuano a essere esclusi dal mercato del lavoro e, ça va sans dire, da qualsiasi forma di sostegno al reddito (se non quello familiare, lì dove esiste). Contribuiscono molto i lavoratori del Sud con 109 mila occupati in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Non stupisce, considerando l’aumento del turismo proprio nelle regioni del Mezzogiorno. Tuttavia, al Sud il tasso di occupazione è del 42,6% contro il 64,8% al Nord e il 61,3% al Centro, situazione che peggiora nel confronto di genere.
Il confronto territoriale si fa più aspro per l’occupazione giovanile (15–24 anni): se è vero che a livello nazionale il tasso di occupazione si attesta al 15,1%, al Sud esso si ferma al 10,3%, contro il 19,3% del Nord. In termini assoluti, il numero di occupati tra i 15 e i 24 anni diminuisce in un anno di 40 mila unità, di 70 mila tra i 25–34 anni e dulcis in fundo la riduzione tocca le 120 mila unità per le persone tra i 35 e 44 anni. Quindi, una riduzione totale per i giovani di 230 mila occupati tra i 14 e i 44 anni. Effetto della riforma Fornero più che del Jobs Act.
Quel che però ci si chiede non è solo quanti siano o meno gli occupati in più, ma che tipo di contratto hanno, qual è il regime orario. In questo modo è infatti possibile unire i dati sui contratti pubblicati dal ministero del Lavoro con quelli dell’Istat. Ebbene, il numero di dipendenti a tempo indeterminato aumenta dello 0,7%, mentre quello a termine subisce un incremento del 3,3%. Come già risulta dal flusso di contratti, attivati e cessati nel periodo, avanza il lavoro a termine più di quello precariamente stabile.
Le variazioni in termini di orario confermano che il regime prediletto è quello part time, che aumenta sia per i contratti permanenti che per quelli a termine, rispettivamente dell’1,3% e del 6,2%. Più lavoratori a termine e part time rispetto agli “indeterminati” a tempo pieno (il cui aumento si ferma allo 0,6%), questo il dato che emerge.