La Stampa 19.9.15
Nel collegio dei gesuiti di Santiago
dove Fidel imparò l’arte della lotta
Disciplina e studio: qui si formarono i fratelli Castro. E Raúl ora potrebbe riaprirlo
di Paolo Mastrolilli
Fidel lo chiamavano «bola de churde», palla di sporcizia, perché distratto da troppe altre cose, non trovava sempre il tempo di lavarsi a dovere. Raúl invece «la pulgita», piccola pulce, non tanto per le dimensioni del corpo, quanto per come stava sempre appiccicato al fratello. Ma la cosa sorprendente è che ormai queste storie non le nasconde più nessuno a Santiago, la «ciudad rebelde siempre» dove tutto è cominciato e tutto potrebbe chiudersi.
In un cerchio che ruota intorno al Colegio de Nuestra Señora de los Dolores, il collegio dei gesuiti dove sono cresciuti i fratelli Castro.
Attaccato come una pulce
Angel, il padre, era un proprietario terriero ricco ma rude, e per far entrare i figli nell’alta società di Santiago aveva scelto la scuola più prestigiosa, quella che preparava l’élite di Cuba. I gesuiti l’avevano fondata nel 1913 e i loro alunni, come i membri di un club riservato, si chiamavano «dolorinos». Fidel ci entrò nel 1938: lui, il fratello maggiore Ramon e il minore Raul, erano tra i 22 allievi privilegiati che vivevano nel collegio. Parlando con Frei Betto, lo stesso Líder Maximo non ha nascosto debito e ammirazione: «Era una scuola di gente più rigorosa, preparata, con vocazione religiosa molto più forte. In realtà, erano persone con maggior dedizione, capacità e disciplina, incomparabilmente superiori. A mio giudizio, era la scuola dove volevo entrare».
Fidel, secondo la ricostruzione di Patrick Symmes nel libro «The Boys From Dolores», non era il primo della classe. José Antonio Cubenas, figlio di un’altra famiglia notabile di Santiago e suo rivale in tutto, lo batteva sempre di qualche voto. Però era il secondo, e non perdeva mai l’occasione di leggere un libro in più. Esuberante sì, ma mai pigro. Anzi, i suoi nemici come Cubenas, che è andato in esilio a New York e ogni anno si incontra a Miami con i «dolorinos» sopravvissuti, rimproverano ai gesuiti di avergli insegnato troppo bene la disciplina militaresca che poi ha usato per vincere la rivoluzione. Fidel era vorace: studiava, leggeva, organizzava, arbitrava e commentava le partite di baseball, portava sempre la bandiera del collegio nelle amate escursioni sulla vicina Sierra Maestra, dove poi non a caso avrebbe basato la sua guerriglia. Una volta scrisse al presidente Roosevelt, per complimentarsi della rielezione: «My good friend Roosevelt, I don’t know very English, but I know as much as to write to you». La Casa Bianca gli rispose, senza però inviargli il biglietto da 10 dollari che Fidel aveva chiesto, urtandolo assai. Del resto Fidel, suggestionato dal padre ex soldato, tifava per gli spagnoli nella guerra contro gli Usa, leggeva i discorsi di Mussolini, e quando Hitler invase la Polonia celebrò così: «Non rimane nemmeno un aereo polacco. È la nostra prima vittoria».
Fu proprio una litigata con Cubenas che mise fine a questa storia. Fidel aveva colpito involontariamente un ragazzo con la mazza da baseball, Jose Antonio lo aveva sfidato a pugni, e quando padre Sanchez li aveva separati, Castro le stava prendendo per la prima volta in vita sua. Così, per avere il diploma fu costretto a trasferirsi in un altro collegio gesuita, il Belén, a L’Avana.
Solidarietà gesuita
Il legame però non si è mai spezzato. Dopo l’assalto alla caserma Moncada, 850 metri di distanza dal Colegio de Dolores, dove il 26 luglio del 1953 Fidel fece il primo tentativo di rivoluzione, fu grazie all’intercessione del rettore della sua ex scuola che i militari di Batista si impegnarono a catturarlo vivo e processarlo: «Condannatemi pure - disse lui -, non importa. La storia mi assolverà». Nel novembre del 1958, quando era tornato sulla Sierra Maestra a fare la guerriglia, un insegnante del collegio, padre Guzman, andò a trovarlo, fra le proteste dei genitori degli alunni che non volevano un professore comunista.
Una mattina di febbraio del 1961, però, la campanella del Colegio de Dolores suonò come mai prima. Quando gli studenti si riunirono nel cortile, il Padre Perfetto tenne un discorso di cinque parole: «Andate tutti a casa, ora!». Poco dopo arrivarono le guardie, perquisirono l’edificio e misero i lucchetti. Il 17 settembre dello stesso anno, con la scusa di una sparatoria avvenuta durante la processione della Virgen de la Caridad, tutti i gesuiti non cubani furono caricati sulla nave Covadonga ed espulsi. «Questo - ha scritto Symmes - faceva parte dell’essere gesuiti. La storia però ha insegnato che sarebbero tornati a Cuba, un giorno».
Oggi il magnifico edificio grigio del Colegio, tre piani con archi e volte in stile coloniale, ospita una scuola che prepara gli studenti all’esame per l’università. Invece di intitolarla ad un eroe della rivoluzione, l’hanno dedicata a Rafael Mendive, filantropo ottocentesco, amico del prete Felix Varela e insegnante del padre dell’indipendenza José Martí. Ad inaugurala nel 2006, dopo la ristrutturazione, è venuto Ramon Castro.
Maria, la signora che sta all’ingresso, mi conduce con orgoglio nella «sala storica», dove sono appese le foto di Fidel, Raul e Ramon in divisa, Fidel nella banda del Colegio, Fidel che alza sorridente il vessillo «Dolores». «Ora che viene il Papa - dice Maria - in piazza ci saranno migliaia di persone. Santiago è piena di cattolici, anche in questa scuola. La rivoluzione va bene, ma la fede è un’altra cosa. Non sono in contraddizione».
Riaprire le scuole
Francesco infatti viene anche per questo. Le scuole cattoliche hanno ripreso a funzionare a Cuba, ma sono tollerate, non riconosciute. Uno studente che prende il diploma viene accettato dalle università americane, ma non cubane. Il pontefice chiederà che questo cambi, e il ruolo dei cattolici nella formazione e l’istruzione sia accettato ufficialmente. Aveva visto giusto Symmes: i gesuiti tornano. Oggi, col Papa. E magari, se aveva ragione Graham Greene a credere nel miracolo dell’uomo dannato che mette Dio sulla bocca degli uomini, toccherà proprio ai «dolorinos» Fidel e Raul di riaprire le scuole dove avevano imparato cos’è un uomo.