venerdì 11 settembre 2015

La Stampa 11.9.15
“Lontani cugini che cambiano le idee sull’evoluzione”
Parla il paleoantropologo Berger che ha guidato il team “Si credeva che le sepolture fossero un’invenzione dei Sapiens”
di Lorenzo Simoncelli


«Signore e signori, vi presento l’Homo naledi. Una nuova specie umana, un nostro lontano cugino. Una scoperta senza precedenti, che lascerà un segno nello studio della paleontologia». Esordisce così il professor Lee Berger, paleoantropologo e ricercatore della Wits University di Johannesburg, davanti a giornalisti e personalità politiche arrivate in massa a Maropeng, sito archeologico patrimonio dell’Unesco, a 50 km da Johannesburg, in Sud Africa.
Americano, 49 anni, Berger sa di avere ben più di 15 minuti di celebrità, e tutti gli occhi addosso dopo anni di studio e di scavi. Dal 2013 dirige un team internazionale di oltre 50 scienziati, incluso l’italiano Damiano Marchi, ricercatore dell’Università di Pisa. Un gruppo selezionato per concorso, che ha lavorato nel sito «Cradle of humankind» - tradotto: culla del genere umano - per scoprire se davvero le origini dell’uomo risalgono proprio a una zona molto specifica, vale a dire l’Africa australe.
«Quello che abbiamo trovato, in una grotta a 40 metri di profondità - racconta Berger - è un vero e proprio mosaico fossile, composto da oltre 1.500 ossa. Risalgono probabilmente ad ominidi vissuti all’incirca due milioni e mezzo di anni fa. Bambini, giovani e anche adulti. Hanno caratteristiche abbastanza simili a quelle di alcune specie più primitive del genere Homo, come l’Homo habilis. A cominciare dal cranio: molto piccolo, ma molto simile a specie più arcaiche, dell’australopiteco».
Ma non siamo di fronte a qualcosa di simile a Lucy, spiega Berger: «Sono soprattutto i denti, le mani, le gambe e i piedi, quasi identici a quelli dell’uomo moderno, che lasciano credere che si tratti di ominidi del genere Homo».
Un ritrovamento strabiliante anche per le difficoltà affrontate dal gruppo di ricerca. «La scoperta dei resti - ha raccontato il capo della spedizione - è avvenuta trovando una fessura all’interno di una serie di grotte. Dopo accurate analisi, abbiamo capito che solo donne molto longilinee si sarebbero potute addentrare. E così ho pubblicato un bando internazionale. Con il finanziamento del “National Geographic” abbiamo reclutato sei giovani ricercatrici che sono entrate dentro l’anfratto».
Le scienziate hanno posizionato un cavo ottico lungo 3,5 km e da quel momento in poi le operazioni di scavo sono state coordinate insieme con un altro gruppo di scienziati rimasto in superficie.
Ed è proprio il contesto in cui sono stati ritrovati i fossili a far emergere uno degli aspetti più straordinario del ritrovamento. «All’interno della grotta - ha spiegato Berger - c’erano praticamente soltanto resti di Homo naledi. Non c’erano invece fossili appartenenti ad altri animali e, dopo aver analizzato tutti gli scenari possibili, siamo arrivati alla conclusione che sia stata questa specie a voler intenzionalmente seppellire i corpi dei propri defunti. Che quindi fossero dediti al rito della sepoltura. Molto prima dell’Homo sapiens, considerato fino ad oggi l’iniziatore di questa pratica».
Dopo un anno di lavoro frenetico, è presto per dirlo. Ma sarebbe proprio questa la conferma che fissa l’origine del genere umano nell’Africa australe. Su questo tema Berger resta ancora cauto. «Il ritrovamento - ha concluso - è un segnale forte. Dimostra come in passato siano stati commessi errori, che non hanno permesso di far venire alla luce un passaggio fondamentale nella storia dell’evoluzione. E tuttavia: non possiamo escludere che esistano altre zone del mondo dove, in futuro, si scoprano nuove specie. Ancora più antiche».