La Stampa 10.9.15
Le alternative alle elezioni in caso di una crisi
di Marcello Sorgi
Dopo la conclusione interlocutoria dell’incontro di martedì tra Renzi e i senatori Pd, compresi quelli della minoranza che si oppone alla riforma così com’è, per la partita del Senato gli sbocchi possibili restano due: accordo o crisi. Al secondo, fin qui escluso da tutti ma non a Palazzo Chigi, visto che il negoziato con l’opposizione interna non fa passi avanti, ha accennato esplicitamente Renzi, quando ha detto che è in gioco la legislatura. E in effetti non si vede come potrebbe sopravvivere il governo alla bocciatura di uno dei punti più qualificanti del suo programma.
I bookmakers di Palazzo Madama scommettono piuttosto sull’accordo, perché nella Camera Alta, di cui si discute la sopravvivenza, il partito più forte è quello del 2018, inteso come scadenza naturale della legislatura. Di giocarsi il posto, in altre parole, nessun senatore ha voglia. Ma al di là degli espedienti tecnici (che tecnici non sono affatto), sperimentati fin qui per favorire la mediazione, un’intesa che consentisse entro il 15 ottobre o giù di lì la terza approvazione della riforma senza intaccare l’articolo 2 sarebbe una nuova vittoria di Renzi. La minoranza Pd potrebbe sempre dire di aver costretto il premier a trattare e a modificare il testo, ma la sostanza sarebbe chiara ed evidente per tutti.
Di qui il timore che alla fine la resistenza degli irriducibili - a meno di un possibile e più o meno mascherato soccorso delle opposizioni - possa sfociare nella crisi. E non per aprire necessariamente la strada alle urne, dal momento che, dovendosi votare con il proporzionale della sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato l’Italicum, Renzi non avrebbe alcuna convenienza ad affrontare un nuovo passaggio elettorale. Ma per costringere il premier a rinegoziare per rimettere su un Renzi bis. A questo genere di prospettiva facevano riferimento nei giorni di vigilia della riapertura del Senato i rumors di corridoio che accennavano alla possibilità di un governo istituzionale, affidato allo stesso presidente del Senato (che, va detto, s’è subito smarcato).
Ma anche il solo passaggio attraverso la liturgia che accompagna le crisi, con le dimissioni, le consultazioni, l’eventuale rinvio al Parlamento del governo, per Renzi rappresenterebbe una sconfitta, pure nel caso in cui dovesse solo trattarsi di una rinfrescata dell’attuale esecutivo, con il presidente del Consiglio che, com’è accaduto altre volte, succede a se stesso. Ecco perché la trattativa che martedì sera è rimasta bloccata, dopo il discorso di Renzi ai senatori, probabilmente vedrà un secondo tempo, in cui ognuno dovrà scoprire le sue carte.