domenica 20 settembre 2015

La Lettura del Corriere 20.9.15
La Cina insegue il suo Confucio ma Confucio (forse) ha perso la Cina
Il Partito comunista si è appropriato dei valori tradizionali
Con qualche successo ma con gravi contraddizioni
di Marco Del Corona


Scena prima. Esattamente dieci anni fa, il presidente e segretario del Partito comunista cinese, Hu Jintao, tiene all’Onu un discorso dalle intenzioni ambiziose, in cui formula il suo principio della «società armoniosa», una visione di esplicita matrice confuciana. Il mondo segue un po’ distratto, la Cina no.
Scena seconda. Nel gennaio 2011, poco prima del capodanno lunare, sul lato nord del Museo nazionale di Pechino — a pochissima distanza dalla Tienanmen e dal ritratto di Mao Zedong — viene innalzata una grande statua di Confucio: 7 metri e 90 di bronzo, più 160 centimetri di basamento. Stupore, domande. Il cicaleccio su internet diventa un vero dibattito, con favorevoli e contrari. A fine aprile paratie azzurre nascondono fulminei lavori. La statua sparisce, inghiottita da un cortiletto dell’immenso museo.
Scena terza. Nel novembre 2013, un anno dopo essere stato collocato al vertice del partito e poco dopo aver annunciato importanti riforme, il leader Xi Jinping visita, con gran dispendio di enfasi propagandistica, la città natale di Confucio, Qufu. Un evento senza precedenti. La Cina non può non capire.
Eccolo compiuto, in tre scene che tracciano un percorso, il ritorno a Confucio. Il filosofo (551–479 a.C.) che più di tutti ha influenzato la storia plurimillenaria della Cina assume nuovamente una posizione centrale, quella che i movimenti progressisti d’inizio Novecento avevano cominciato a erodere e che Mao, non solo al culmine della sua Rivoluzione culturale (1966-76), aveva tentato di abbattere. Confucio, in realtà, non era mai andato via. Era rimasto anche quando veniva negato perché — scrive Maurizio Scarpari nel suo Ritorno a Confucio edito dal Mulino, in libreria a ridosso del «compleanno» del filosofo, 28 settembre — tradizioni radicate, patrimoni connaturati allo sviluppo di una civiltà resistono anche alla più violenta delle abiure. Possono tacere per un po’, non svanire. È per questo che Scarpari, uno dei maggiori sinologi italiani, può proiettare con profitto il campo originario dei suoi studi — la Cina classica, la sua letteratura, le sue idee — sull’attualità di un’economia dalla crescita portentosa, e ultimamente accidentata, e di una società in vertiginosa trasformazione. E lo schema concettuale che caratterizza ancora oggi il pensiero e la prassi della Cina pare guidare Scarpari nell’esposizione delle dinamiche in atto: confucianesimo, «socialismo con caratteristiche cinesi» e capitalismo non hanno confini netti, non s’impongono come principi assoluti, ma tutto si declina nella prassi, coesistendo e non opponendosi.
Confucio ha cominciato a riaffacciarsi sulla scena accademica e pubblica in parallelo con l’avanzare delle riforme economiche di Deng Xiaoping, lanciate nel dicembre 1978. La morte di Mao (1976) aveva aperto spazi ideologici e morali, riaccendendo l’attenzione verso il sistema di valori che noi definiamo convenzionalmente confuciani: l’accento sull’educazione, sulla saggezza e sull’equilibrio, la cura del bene comune, la responsabilità, il rispetto per la gerarchia sia in famiglia sia nello Stato, in un reticolo di pesi e contrappesi che tende a un’armonia complessiva, nella lealtà e nella pace.
Il ricorso all’apparato di valori offerto da Confucio e dalla sua scuola è diventato indispensabile man mano che lo sviluppo economico ha aperto fenditure profonde nella società cinese, non più omogenea e livellata verso la povertà. Il partito si è così attribuito le prerogative del sovrano illuminato. Ha creato un equilibrio a geometria variabile tra marxismo-leninismo, del quale Xi Jinping si è eretto a difensore, e confucianesimo.
I riferimenti testuali e lessicali ai testi classici della Cina accompagnano l’argomentazione di Scarpari, che finisce col mettere in luce i paradossi della confucianizzazione del sistema di potere della Cina, dalle modalità contraddittorie di Hu (scene prima e seconda, per intenderci) alla deliberata assunzione di un ruolo centrale da parte del successore Xi (scena terza). Il Partito comunista ha saputo efficacemente rendere compatibile con la propria visione il patrimonio della tradizione, attraverso la quale si legittima. Tuttavia incoccia in aspetti che deviano dal passato. Come l’atomizzazione della società e la disgregazione delle strutture familiari e di clan che avevano retto, nonostante tutto, anche in epoca maoista: uno scenario che azzera i punti di riferimento confuciani.
Tra i nodi che la Cina affronta sul piano identitario, al di là delle fresche fibrillazioni economiche, è decisiva la relazione — suggerisce Scarpari — tra «cultura e potere». Confucianamente Pechino culla l’idea di poter irradiare una serie di valori che da propri possano farsi universali. Il «sogno cinese» indicato come un dogma da Xi implica che la cultura come «anima della nazione» attragga e seduca come e più di quanto sappia fare l’Occidente. Qui s’innesca l’ennesima contraddizione che si manifesta nello sforzo, anche economico, per esportare la propria, di cultura. Cultura però snaturata nel momento in cui si esercita su di essa un controllo totale in nome della coerenza col partito. Dunque non pluralità, ma ossequio e obbedienza, benché l’armonia confuciana preveda la coesistenza e il fluido oscillare degli opposti.
Si tratta di una difficoltà che esplode in modo emblematico negli Istituti Confucio (Ic), insediati nelle istituzioni accademiche del mondo pur dipendendo totalmente dal potere centrale di Pechino, a differenza dei vari British Council, Alliance Française e Goethe Institut. Gli Ic sono una presenza sempre più ingombrante e controversa, alla fine controproducente, e non hanno potuto imporsi come veicolo di un soft power . Paradosso estremo che riassume molto, quasi tutto. Forse la Cina deve decidere se è già troppo o ancora troppo poco confuciana. O forse Confucio è rimasto senza la sua Cina.