domenica 20 settembre 2015

Il Sole Domenica 3.9.15
Abilità animali e umane
Origine pelagica dell’occhio
di Umberto Bottazzini


Dapprima, ricordava Freud nella Introduzione alla Psicoanalisi, l’uomo riteneva che la sua sede, la Terra, se ne stesse immobile al centro dell’Universo, mentre il Sole, la Luna e i pianeti le ruotavano intorno. La posizione centrale della Terra era una garanzia del ruolo dominante che l’uomo esercitava nell’Universo, e della sua propensione a sentirsi signore del proprio mondo. Si deve a Copernico «la distruzione di questa illusione narcisistica», così come a Darwin si deve «la fine del predominio dell’uomo sul mondo animale». La «terza umiliazione, di natura psicologica», aggiungeva Freud, è stata la scoperta che «l’Io non è padrone in casa propria». Non avrà la portata di quelle tre grandi “rivoluzioni”, ma L’ingegneria degli animali descritta nel libro di Mark Denny e Alan McFadzean di certo le corrobora, infliggendo un ulteriore colpo al narcisismo umano. «Tu sei una Grande Scimmia», è il brusco esordio con cui si rivolgono senza mezzi termini al lettore. E se qualcuno se ne ha a male sentendosi ricordare la nostra comune discendenza perché ritiene gli esseri umani superiori al resto del regno animale, Denny e McFadzean aggiungono che sì, per certi aspetti questo è vero, ma per altri versi non lo è affatto.
Fisici di formazione, con una lunga esperienza nel campo dell’ingegneria aereospaziale e della modellizzazione matematica di fenomeni naturali, per argomentare le loro affermazioni «con obiettività scientifica» Denny e McFadzean mettono a confronto le «meravigliosamente multiformi, sbalorditive abilità» degli animali non umani con quelle degli esseri umani. Certo, per quanto ne sappiamo, siamo una classe a parte perché siamo i soli nel regno animale ad essere dotati di un cervello in grado di elaborare il pensiero astratto e il linguaggio. Ma occorre riconoscere che per altre capacità biologiche non siamo in grado di reggere il confronto con diverse specie animali, come impietosamente ci ricordano le pagine di questo libro, che solo occasionalmente, e per lo stretto indispensabile, fa ricorso a nozioni fisiche e al linguaggio e al simbolismo della matematica. Come nel capitolo iniziale, quando Denny e McFadzean spiegano che l’energia irradiata dal Sole non solo è essenziale alla vita sulla Terra – altrimenti non sarebbe neppure nata – ma col suo fluire influenza la struttura di ogni essere vivente, ne governa forma e dimensioni, modalità di evoluzione e di comportamento, e discutono le diverse “leggi di scala” che ne derivano e consentono di dar conto della distribuzione degli animali sulla Terra e del variare della loro struttura corporea in dipendenza delle condizioni ambientali. Analogamente, in ogni capitolo poche e chiare spiegazioni servono a illustrare dal punto di vista fisico e ingegneristico i diversi argomenti trattati. Così, per descrivere il movimento dei bipedi è sufficiente un semplice modellino meccanico (un pendolo capovolto sorretto da un’asta rigida connessa nel punto di cerniera a un gruppo-ruote mobile e una regola di retroazione per mantenere il pendolo verticale; ne servono due coppie per i quadrupedi). La fisica del volo è faccenda assai complessa e richiede equazioni molto difficili da spiegare, e tanto più da risolvere. Ma non serve una laurea in ingegneria aereonautica per seguire la trattazione del volo degli uccelli presentata in queste pagine, e capire per esempio come possa un albatros veleggiare per migliaia di chilometri sulle distese degli oceani sfruttando il vento in modo da volare senza alcun dispendio meccanico e poca energia fisiologica. Così come un breve ripasso di ottica è sufficiente per introdurre il funzionamento degli occhi. La nostra vista è piuttosto buona in confronto con quella degli altri animali, ma certo non è il meglio: rapaci come il falco pellegrino hanno un’acutezza visiva che è quattro volte la nostra, e scorgono la loro preda a un chilometro e mezzo di distanza! Gli occhi dei vertebrati (compreso l’uomo) «si sono evoluti una sola volta, e quasi certamente in mare», affermano Denny e McFadzean. Per un ingegnere, infatti, l’origine pelagica dell’occhio «è un’ovvia conseguenza delle proprietà ottiche dell’acqua marina». I nostri occhi sono sensibili solo alla porzione dello spettro elettromagnetico – la “luce visibile” appunto, compresa tra le frequenze dell’infrarosso e dell’ultravioletto – che nell’acqua marina riesce a percorrere distanze apprezzabili, mentre le altre frequenze sono rapidamente attenuate per assorbimento o diffusione. Se il nostro occhio fosse stato progettato per la visione sulla terra sarebbe stata più funzionale anche la sensibilità ad altre frequenze, come ad esempio l’ultravioletto che molti uccelli possiedono. Denny e McFadzean evidenziano poi un “vizio di progetto” dei nostri occhi, incorporato in epoca remota, rispetto a quello dei cefalopodi come polpi, calamari e moscardini, che si sono evoluti separatamente. Dal punto di vista ingegneresco, si tratta di «uno sbaglio da sprovveduti», ossia il cablaggio a rovescio dei fotorecettori dei coni e bastoncelli – le cellule della retina sensibili alla luce – che fa sì che nel nostro occhio ci sia un punto cieco dove il nervo ottico attraversa la retina per portare i segnali al cervello. Cosa che non accade ai cefalopodi, che hanno i fotorecettori cablati correttamente, e sono inoltre sensibili alla luce polarizzata oltre che capaci di emetterla. Ma, commentano Denny e McFadzean, «per conferire un vantaggio evolutivo non importa che le soluzioni trovate dall’evoluzione siano perfette».
La vista ha un ruolo preponderante per gli esseri umani, mentre altri sensi sono deboli o addirittura assenti. I cani storcerebbero il naso per la nostra incapacità di orientarci fiutando gli odori come fanno loro. Quanto all’udito, siamo davvero messi male rispetto per esempio ai gufi, che hanno orecchie asimmetriche, una specializzazione (unica tra tutti i vertebrati) che consente loro di misurare l’elevazione di una sorgente sonora con una tecnica che (forse) è stata re-inventata durante la seconda guerra mondiale – il cosiddetto radar a impulso singolo. È interessante notare, commentano Denny e McFadzean, che a quanto pare la natura è «pervenuta alle stesse soluzioni trovate dai progettisti radar e sonar, anche se in anticipo su di loro di un buon 30 milioni di anni». Per non parlare delle strabilianti capacità di orientamento delle formiche del deserto o degli ecolocalizzatori in dotazione a balene e delfini – il delfino dal naso a bottiglia è dotato di un sofisticato sistema di localizzazione e analisi dell’obbiettivo migliore dei nostri più avanzati apparati radar militari – e dei sonar naturali di stupefacente precisione come quelli delle centinaia di specie di pipistrelli. Insomma, ad ogni pagina questo libro ci rivela un mondo affascinante e sorprendente, invitandoci a guardarci intorno con occhi diversi giacché, come concludono Denny e McFadzean, in molti casi considerazioni di tipo ingegneristico hanno in natura un peso tale da avvalorare l’opinione che tutti gli animali si possono considerare come delle opere di ingegneria …. naturale.
Mark Denny, Alan McFadzean, L’ingegneria degli animali , Adelphi, Milano, pagg. 408, € 36,00