Il Sole 7.9.15
Lo stato dell’Unione
La leadership debole è il vero nodo dell’Europa
di Adriana Cerretelli
Le prospettive di crescita dell’economia mondiale si annunciano peggiori di quanto si riteneva all’inizio dell’anno, ha avvertito il Fmi. La domanda non sale, l’inflazione nemmeno e neanche i prezzi del petrolio. I rischi di rallentamento economico sono generalizzati, tra gli altri negli Stati Uniti e in Europa. Per questo il Fondo invita a non aumentare i tassi d’interesse ma, al contrario, a non demordere da una politica monetaria espansiva.
Quando l’economia non splende, e ormai non lo fa da quasi un decennio, l’Europa sta peggio, tende a sgretolarsi, a perdere il filo dell’interesse comune. Dopodomani, a Strasburgo, Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, pronuncerà davanti all’Europarlamento il suo primo discorso sullo stato dell’Unione. Che in questa rentrée autunnale appare alquanto prostrato e promette scontri, negoziati duri e niente balocchi.
La crisi greca non è finita, ma è entrata in fase di stand-by, in attesa delle elezioni del 20 settembre e poi delle trattative sulla ristrutturazione del debito, ammesso che, alla prima verifica di ottobre, il programma di riforme concordato con i creditori risulti attuato e credibile nei fatti. Ma siccome in Europa le emergenze non finiscono mai, al centro dell’allocuzione di Juncker ci sarà l’immigrazione, la politica comune che non c’è ma la cui urgenza diventa sempre più impellente.
Il numero dei profughi alla ricerca di asilo che approdano in Europa continua ad aumentare: 23mila in Grecia in una settimana, 100mila in agosto in Germania, che quest’anno ne accoglierà 800mila, l’1% della sua popolazione. I salvataggi dell’Italia nel Mediterraneo sono ormai quasi quotidiani, mentre le rotte terrestri, via Balcani e poi attraverso l’Ungheria, diventano sempre più frequentate perché ritenute meno pericolose. Con flussi sempre più incontenibili, si moltiplicano tragedie e perdite di vite umane.
La crisi è umanitaria, economica e politica. «È una crisi che ci occuperà molto più di quella greca» ha avvertito alcune settimane fa Angela Merkel.
Il cancelliere tedesco rivendica un’azione comune, solidarietà europea per la ripartizione obbligatoria dei rifugiati, insieme alla riforma della convenzione di Dublino, che oggi prevede che, a chi ne abbia diritto, sia dato asilo nel primo Paese di accoglienza. Per gli altri invece la prospettiva è il rimpatrio. Francia e Italia condividono questa linea.
Juncker proporrà mercoledì all’Europarlamento un nuovo piano che, salvo sorprese, prevede la spartizione per quote obbligatorie di 120mila rifugiati arrivati in Italia, Grecia e Ungheria. Andranno ad aggiungersi ai 40mila della prima proposta della Commissione Ue, sostanzialmente bocciata in luglio dai ministri degli Interni, quando la solidarietà ha superato a malapena la soglia di 32mila, ma solo per scelta volontaria: le quote obbligatorie sono state respinte.
Visto che ora è appoggiato dai grandi Paesi, forse il nuovo piano avrà un destino migliore. Anche se le resistenze nazionali sono tutt’altro che spente. Il fossato Est-Ovest resta profondo. I Paesi dell’Est sono convinti che la prevenzione serva più delle quote obbligatorie, ritenute di fatto lo strumento che incoraggia l’esodo e le tragedie che seguono.
A Ovest, d’altra parte, l’autunno sarà denso di elezioni: in Grecia prima, e poi in Portogallo e Spagna. Inevitabilmente la questione immigrati e la sua gestione saranno al centro di tutte le campagne elettorali e saranno un test per i Governi in carica. I partiti nazionalisti, estremisti e populisti potrebbero trarne ampi vantaggi, la stabilità politica molto meno.
Anche se volutamente ai margini della partita (grazie alle clausole di opt-out di cui beneficia insieme a Irlanda e Danimarca), la Gran Bretagna di David Cameron non aiuta la costruzione del consenso europeo. Tende anzi a smontarlo con impegno, provando a fare proseliti nei Paesi scandinavi e dell’Est nella sua ansia di riformare le attuali regole Ue nel segno di una sostanziale riappropriazione della sovranità nazionale in molti settori del mercato unico, compresa la libera circolazione delle persone, in breve la libera migrazione intra-comunitaria. Quanto ai rifugiati, preferisce tenerli fuori o al massimo accogliere i siriani con molti distinguo.
Le fatiche di questo autunno europeo però non si fermeranno qui. È ormai imminente il momento della presentazione annuale dei vari programmi di stabilità nazionali, l’esame europeo della loro compatibilità con la disciplina di bilancio e i singoli carnet di riforme strutturali concordati. Inevitabile, anche questa volta, un acceso dibattito all’Eurogruppo sui margini di flessibilità da concedere a chi ha le carte in regola per beneficiarne. L’Italia promette battaglia.
A rigor di logica il contesto esterno gravido di incertezze e l’economia europea che non ritrova un solido dinamismo dovrebbero però incoraggiare scelte più pragmatiche che ideologiche nell’interesse generale: anche nella Germania che cresce più degli altri nell’Eurozona, ma di sicuro non brilla e rischia di pagare più dei partner il riassestamento dell’economia cinese.
Per districare questa matassa di dossier sempre più ostici e complessi, ci vorrà una grande capacità di leadership. Peccato che finora l’Europa ne abbia mostrata poca.