domenica 6 settembre 2015

Il Sole 6.9.15
È tutta da ripensare l’attuale politica migratoria
È indispensabile superare un sistema istituzionale basato soltanto sul modello intergovernativo e gli interessi nazionali
di Sergio Fabbrini


Come la crisi finanziaria, anche la crisi migratoria sta mostrando l’inadeguatezza di una Unione europea governata esclusivamente dai governi nazionali. Di fronte al dramma ripetuto di centinaia di migliaia di persone che fuggono dai propri paesi per venire in Europa, la Ue non sa cosa fare. Il fenomeno migratorio verso il nostro continente, con i suoi sconvolgenti costi umani, è in atto da anni. Eppure la Ue non ha una politica migratoria comune, anzi non ha neppure definito obiettivi di azione minimi condivisi tra i suoi membri. I governi di questi ultimi sono divisi tra di loro. I paesi dell’Europa orientale, con la parziale eccezione della Polonia, non vogliono neppure parlare di accoglienza. Il Regno Unito, l’Irlanda, la Danimarca e la Svezia ribadiscono la loro estraneità al problema, visto che non fanno parte (pienamente o parzialmente) del cosiddetto spazio di Schengen. Ogni stato membro della Ue interpreta a modo suo il diritto d’asilo. Non c’è un accordo formale circa i paesi di origine dei migranti che giustificherebbero il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Rimane ancora in vigore l’accordo detto di Dublino III, in base al quale spetta allo stato di arrivo dei migranti farsi carico delle procedure per il riconoscimento di questi ultimi. L’Italia ha sollevato più volte l’esigenza di riformare quell’accordo, vista la sua evidente iniquità, ma la risposta è consistita per molto tempo in un cortese silenzio. Naturalmente, di fronte a questa gara tra cupi egoismi nazionali, la dichiarazione del cancelliere tedesco Angela Merkel, favorevole ad ospitare nel proprio paese fino a 800mila rifugiati, è sembrata introdurre uno sprazzo di luce, o almeno di umanità. Ma è sufficiente?
La mia risposta è negativa. Non si può costruire una politica migratoria comune oscillando tra la simpatia per un leader di governo nazionale e l’antipatia per un altro. Una politica migratoria comune richiede un sistema istituzionale che la renda possibile. E dell’assenza di tale sistema nessuno parla. Si guardi come funziona il processo. Alcuni giorni fa si sono incontrati i capi di governo della Germania, Francia e Regno Unito per discutere del problema migratorio. Alla fine dell’incontro hanno chiesto ai rispettivi ministri degli Interni di chiedere a loro volta alla presidenza lussemburghese di turno della Ue di chiedere a sua volta ai ministri degli interni di tutti gli stati membri della Ue di riunirsi per poter chiedere a loro volta agli stessi capi di governo di fare qualcosa. Nel frattempo, due giorni fa, i capi di governo di Germania e Francia hanno ribadito che loro sono pronti a fare qualcosa. Nel frattempo, si sono incontrati i ministri degli Esteri dell’Italia, della Francia e della Germania per chiedere all’Alto Rappresentate di chiedere ai ministri degli Esteri della Ue di incontrarsi. Non sto scherzando: è andata proprio così. E andava così mentre bambini di migranti perdevano la vita sulle spiagge della Turchia, centinaia di loro affogavano nel Mediterraneo, migliaia rimanevano prigionieri nella stazione di Budapest. Qualcuno potrebbe dire che così funziona la Ue. Ma non è vero. Infatti, la Commissione europea è stata esclusa da questo processo, il Parlamento europeo è stato messo in un angolo e lo stesso presidente del Consiglio europeo dei capi di governo non ha avuto voce in capitolo.
Così funziona invece il modello intergovernativo adottato per organizzare le politiche considerate strategiche dai governi nazionali. Tra cui quella migratoria. Quest’ultima è una competenza degli stati membri che la gestiscono attraverso i loro organismi intergovernativi (il Consiglio dei ministri degli interni e della giustizia). Se quella politica ha risvolti di sicurezza militare, allora viene attivato il Consiglio dei ministri della difesa degli stati membri. E quando coinvolge la politica estera, allora entrano in campo anche i ministri degli esteri, coordinati dall’Alto Rappresentante. La Commissione è incaricata di implementare le decisioni dei governi nazionali, ma non è autorizzata a fare di più. E anche in questo ruolo è contestata. Quando la Commissione Juncker, seguendo una decisione del Consiglio europeo dei capi di governo, propose qualche mese fa uno schema per la relocation di 32mila rifugiati politici, scoppiò il finimondo. Diversi governi presero le distanze da quello schema, sparando a palle incrociate sulla Commissione. Possiamo immaginare cosa succederà nei prossimi giorni, quando la Commissione presenterà, sempre su richiesta di alcuni capi di governo, un altro schema per distribuire tra gli stati membri ben 160mila rifugiati politici, schema accompagnato da penalizzazioni finanziarie nei confronti di quegli stati che si rifiuteranno di accettare la quota di rifugiati politici a loro assegnata.
È poco plausibile costruire una politica migratoria comune su queste basi. È legittimo indignarsi per l’egoismo dell’Europa, ma non basta. È il sistema esclusivamente intergovernativo che non può funzionare. In quel sistema, nessun stato membro vuole pagare i costi dell’appartenenza alla Ue, anche se vuole goderne i benefici. In una unione di stati è difficile prendere decisioni senza i governi di questi ultimi, ma è ancora più difficile prenderle solamente attraverso di loro. La logica consensuale dell’unione intergovernativa non regge in condizioni di crisi. Le riunioni tra i governi si paralizzano per via dei veti reciproci. Infatti, in situazioni di crisi, le decisioni vengono raggiunte quando i leader dei paesi più grandi impongono la loro forza (dando in cambio qualcosa ai recalcitranti). Così come nella crisi greca, anche nella crisi migratoria le decisioni, alla fine, verranno prese su impulso di Berlino, non di Bruxelles. Si può andare avanti in questo modo? Come le barche dei migranti, anche la barca istituzionale della Ue fa acqua da tutte le parti.