domenica 27 settembre 2015

Il Sole 27.9.15
Migranti, l’integrazione crea risorse
È l’istruzione a fare la differenza quando si tratta di trarre benefici, e non problemi, dall’immigrazione
di Fabrizio Galimberti


La volta scorsa abbiamo parlato del problema drammatico dei rifugiati, inquadrandolo nel più generale problema dell'immigrazione, e abbiamo tratteggiato le cause di fondo: la disparità di redditi fra l’Europa da una parte e i Paesi africani e del Medio Oriente dall’altra. Una disparità aggravata negli ultimi anni da una crescita stentata nei Paesi di partenza. Su queste cause strutturali si è innestata la tragedia della guerra civile in Siria che ha condotto a fughe in massa verso i Paesi ricchi d’Europa.
Oggi guardiamo a un altro aspetto dell’immigrazione: l’integrazione degli immigrati. Un aspetto che è tanto più importante adesso, quando l’Europa si appresta a dover ospitare più di un milione di rifugiati. Avete mai sentito parlare della fuga dei cervelli? Di solito se ne parla in relazione all’Italia: i giovani brillanti che lasciano l’università non trovano lavoro e, frustrati e delusi, vanno all’estero. Per l’Italia è una perdita secca: abbiamo speso per dare loro un’istruzione, e non abbiamo nulla in cambio.
Si può parlare di fuga dei cervelli, o di fuga delle braccia, anche quando la gente lascia i Paesi poveri o in preda a sanguinose convulsioni per cercar fortuna o rifugio altrove. Anche in quel caso c'è una perdita secca per il Paese di provenienza. Poco o tanto che abbiano speso per l’istruzione, la Siria o l'Afghanistan non recupereranno quelle spese. Certo, per il singolo la decisione di lasciare il proprio Paese è razionale: se non c’è lavoro o se c’è pericolo di morte è meglio andar via. Ma per il Paese nel suo insieme la questione si pone diversamente.
Spesso quel che è vero per una parte non è vero per il tutto. Abbiamo visto lo stesso fenomeno, in altri contesti, nel famoso paradosso del risparmio (ne abbiamo già parlato, a partire dai Sole Junior del 17 e del 24 marzo 2013): risparmiare è una virtù individuale, ma se tutti risparmiano e non spendono, diventa un vizio collettivo perché l’economia si ferma. Del pari, la decisione di lasciare il proprio Paese può essere individualmente giusta, ma collettivamente deleteria per la comunità che si lascia.
Naturalmente, la questione si pone in modo diverso per il Paese di destinazione. Se un brillante giovane biologo lascia l’Italia e va negli Stati Uniti, la perdita dell’Italia diventa un guadagno per l’America: il Paese di destinazione si trova ad avere una persona già formata e pronta a contribuire all’economia del Paese. Si può fare lo stesso ragionamento quando il Paese di destinazione è l’Italia (o la Francia o la Germania o la Svezia...) e quelli che arrivano non sono brillanti laureati ma poveri diavoli che fuggono da Paesi infelici?
Sì, il ragionamento è lo stesso. In ogni Paese c’è una specie di contratto sociale: lo Stato si prende cura degli individui con l’istruzione e la sanità, e gli individui poi restituiscono il favore, mantenendo se stessi e dando una parte del loro reddito (le tasse) allo Stato. Se questi cittadini vanno in un altro Stato, questo Stato ci guadagna, per le ragioni dette prima. Ma la situazione non è così netta come nel caso del brillante laureato italiano che va in America. Quando quest’ultimo arriva in America, il Paese ospitante non deve far nulla per accoglierlo. Invece, quando l’immigrato pakistano o il profugo siriano arrivano in Italia o in Germania, ci sono spese di accoglienza e tempi di integrazione.
L’integrazione diventa quindi un passo essenziale. Mentre l’immigrazione, come detto prima, è una perdita per il Paese di partenza e un guadagno per quello di destinazione, a livello individuale ci può essere un guadagno per tutti e due: guadagno per il singolo immigrato e guadagno per i consumatori dei Paesi di destinazione, che avranno quei servizi a buon mercato (badanti, camerieri, sterratori...) che altrimenti non avrebbero avuto. A patto, però, che l'integrazione funzioni: sia a livello economico (far incontrare domanda e offerta di lavoro) che a livello sociale (tradizioni e cultura).
L'integrazione può essere misurata in diversi modi. Comparando a esempio, per l’Italia, i tassi di disoccupazione di residenti e immigrati; lo stesso per i tassi di occupazione, il grado di istruzione, reddito, diseguaglianza, e così via. Distinguendo ulteriormente, poi, fra gli immigrati, coloro che sono nati in un altro Paese da quelli che sono nati in Italia da genitori immigrati o “misti” (uno italiano e uno no).
Una recente ricerca dell’Ocse trova qualcosa di inaspettato: ci si sarebbe potuti attendere che più immigrati ci sono, maggiori sono le difficoltà di integrazione. Ma questo non risulta dai dati; al contrario, succede che nei Paesi dove maggiore è la presenza di immigrati, migliori sono i risultati dell'integrazione.
Un fattore cruciale è quello della scuola, dove è possibile comparare gli esiti per i ragazzi residenti e quelli immigrati (nati all’estero o nati qui). Il grafico mostra un risultato non gratificante per l’Italia. Le ricerche PISA (Program for International Student Assessment) mostrano che dal 2003 al 2012, i punteggi per la capacità di lettura dei 15enni immigrati sono migliorati, poco o tanto, in America e in Europa, ma sono peggiorati in Italia. Un andamento che è sconfortante, specie quando si pensi che invece, per i 15enni “italiani”, il punteggio è migliorato nettamente. Eppure è proprio l'istruzione che fa e farà la differenza quando si tratti di trarre benefici – e non problemi – dall’immigrazione.