Il Sole 18.9.15
Il Giappone e le armi, una storia riaperta
La nuova legge sulla sicurezza
di S. Car.
Lo spettacolo di tafferugli in aule parlamentari è insolito in Giappone, così come non si vedevano da decenni proteste di piazza tanto imponenti e tali da aver persino resuscitato un movimento studentesco tra giovani considerati allergici alla politica. Il governo del premier Shinzo Abe ha deciso comunque di accelerare l’approvazione parlamentare definitiva della nuova legislazione sulla sicurezza che rappresenta una svolta storica per il Paese. La possibilità – sia pure formalmente circoscritta - che le Forze di Autodifesa giapponesi tornino a operare all’estero in aiuto di alleati anche senza una minaccia diretta al territorio nazionale apre scenari inediti non solo per un Sol Levante che da 70 anni non ha mai visto un solo uomo in divisa uccidere o morire fuori dall’arcipelago. Gli argomenti invocati dal premier appaiono razionali: la “difesa collettiva” è ammessa dall’Onu per tutti gli Stati; il contesto internazionale richiede un ruolo più attivo sul fronte della sicurezza; non si possono ignorare le sollecitazioni dell’alleato Usa e permarranno limitazioni all’impiego della forza all’estero. Razionali, però, sembrano anche alcuni argomenti degli oppositori. Lascia perplessi che un simile cambiamento epocale sia attuato non attraverso una procedura di modifica costituzionale ma in base a una semplice “interpretazione ufficiale governativa” poi approvata dalla Dieta. L’esperienza altrui - compresa quella di una Italia oggi confinante con il caos libico e mediorientale – porta a non poter escludere il rischio di essere risucchiati in affrettate guerre promosse da Paesi alleati, con conseguenze contrarie allo stesso interesse nazionale.
Un conto sarebbe partecipare a operazioni collettive di sminamento in acque internazionali. Altro sarebbe, ad esempio, l’invio di navi e aerei da combattimento giapponesi nel Mar Cinese Meridionale, che porterebbe a un non necessario aumento delle tensioni regionali e globali. Un quarto di secolo fa fece rumore il libro «The Japan that can say no». Non è escluso che in futuro possa essere più felice un Giappone che non dica necessariamente sì. E tutti si devono augurare che Abe abbia ragione quando invoca, quasi alla Fidel Castro, che la storia lo assolverà, paragonandosi al nonno premier. Nonostante opposizioni ben più forti e diffuse, Nobusuke Kishi, nel 1960, ignorò la piazza facendo approvare il rafforzamento dei legami con gli Usa attraverso la revisione del trattato bilaterale. Ne seguì un lungo periodo di pace e prosperità. Durato fino ai nostri giorni. (S.Car.)