Il Sole 16.9.15
Imprese di Stato, Pechino avvia la riforma
Dopo settimane di annunci, nel week-end ha mosso i primi piccoli passi la riorganizzazione
di Rita Fatiguso
PECHINO Non è il momento migliore per ritornarci su, l’ha detto lo stesso presidente Xi Jinping, però dallo scorso weekend la riforma delle aziende di Stato ha fatto un altro passo avanti.
Dopo settimane di annunci, il blueprint (il documento 22 del 24 agosto scorso) varato dal Consiglio di Stato, a due anni dal richiamo di Xi alle forze del mercato per una più giusta allocazione delle risorse, spingerà le aziende ad accorparsi, nascerà la divisione tra aziende industriali e aziende più orientate sulle attività finanziarie, si introduce la figura dell’azionista esterno.
Tutte riforme da realizzare entro il 2020, beninteso, lo Stato cinese fatica a convertirsi a un regime diverso da quello comunista.
Però c’è bisogno di efficienza, come dimostra l’attuale congiuntura, e lo Stato a fatica regge il peso delle diseconomie legate alle aziende pubbliche. Ben 111 conglomerate elefantiache che toccano il 60% dei profitti statali e sono sottoposte alla vigilanza della Sasac (State-owned Assets Supervision and Administration Commission), anch’essa organismo pletorico da riformare prima o poi.
La parola privatizzazione ovviamente è bandita, però la nuova tappa verso la riforma dovrebbe aprire nuove prospettive nei settori dell’energia, ferrovie e trasporti, telecomunicazioni, attraverso il miglioramento della governance e la prevenzione della corruzione che nel pubblico alligna in maniera più spiccata.
È di queste ore la notizia dell’ennesima retata di funzionari nudi, come vengono chiamati i dipendenti pubblici che hanno spedito all’estero moglie e figli con green card o nuovo passaporto. Ci sono aziende che hanno problemi gravi di management, il regime dei benefit non è centrato sui profitti. Il documento cerca di porre un rimedio a queste croniche inefficienze. C’è una forte spinta a quotarsi in borsa e ad aprire il capitale azionario. Il che ovviamente non varrà per le aziende che svolgono un’attività essenziale per la sicurezza del Paese.
Il bello è che alle aziende, almeno, sarà permesso di fallire.
C’è poi la storia della golden share. L’inserimento di questa novità – i rumors si rincorrono da tempo – fa sì che la riforma delle società pubbliche si arricchisca di nuovi elementi. L’introduzione di un tipo di azione privilegiata detenuta dal governo o da un’entità paragovernativa permetterebbe in maniera graduale di cedere le redini. Ma sarebbe utile per mantenere il controllo sulle decisioni più importanti, come quelle delle telecomunicazioni e industrie del petrolio e del gas.
Sarebbe in atto però anche una aziendalizzazione totale delle imprese pubbliche attraverso il sistema delle azioni privilegiate, quelle che danno diritto ad esempio alla partecipazione agli utili, mentre in sé la golden share è progettata appositamente per aiutare il Governo a mantenere l’ultima parola, quella decisiva, e a impedire agli azionisti non statali di restare in una posizione più defilata. La svolta, ovviamente, non dovrebbe applicarsi agli enti non profit, dei quali la legge si occupa per la prima volta proprio in relazione a questa riforma.
L’aspetto più difficile da gestire in un momento di crisi economica è proprio quello relativo al personale: come si diceva nelle aziende pubbliche lavorano milioni di persone per le quali la cosa più importante è la golden rice bowl, lo stipendio garantito, la massa di impiegati più dura da riconvertire a una diversa mentalità. Sono loro a preoccupare maggiormente gli autori della riforma: come costringerli ad essere produttivi in un contesto più orientato al privato?