Il Sole 16.9.15
La fine dell’«era Schengen»
di Vittorio Emanuele Parsi
Chissà quando nel dibattito pubblico italiano (e in questo caso europeo) riusciremo ad affrontare il gigantesco tema delle migrazioni in modo non retorico e non sentimentalistico.
A leggere e ascoltare i commenti di ieri sul vertice di Bruxelles dedicato alle “quote” c’era di che restare sconcertati. La “morte di Schengen”, il “ritorno dei confini in Europa” e chi più ne ha più ne metta, una vera e propria cortina di fumo di retorica che rendeva difficile percepire la reale dimensione della situazione che l’Europa e le sue istituzioni, così come i governi e i popoli europei, stanno cercando, bene o male, di affrontare. Le cose sono molto semplici: è un mondo nuovo, magari più “selvaggio” (per parafrasare il grande libro di Aldous Huxley), che ha preso il posto del vecchio e nella sua impetuosa avanzata sta mettendo in crisi quando non spazzando via (anche) istituzioni e convenzioni adatte a quello e non a questo. Schengen faceva parte di quel mondo che adesso non esiste più: un mondo di confini sicuri intorno all’Europa, grazie al crollo dell’Urss e al trionfo incontrastato dell’Occidente e dei suoi valori. Serviva a far muovere liberamente dentro i confini dell’Unione i cittadini dei suoi Stati membri, cioè di Stati così solidi e reciprocamente affidabili da poter garantire solidalmente dell’identità dei propri residenti. Il costo e il rischio che nello spazio comune si potessero muovere malintenzionati o sconosciuti erano più che compensati dal beneficio e dall’opportunità che la libera circolazione degli individui offriva. Ma se oggi i confini europei non reggono più, se neppure con il (deprecabile) filo spinato si riesce a rallentare o bloccare il flusso di chi non ha nulla da perdere a tentare di entrare in Europa con ogni mezzo, perché tutto ormai gli è stato già portato via (dalla guerra o dalla miseria), tranne la speranza o l’illusione che in Europa potrà continuare a vivere, come si può pensare che un Trattato nato su ben diverse premesse potesse uscirne indenne? Se le persone che entrano non vengono idnetificate, come si può sostenere che la sicurezza comune non sia messa a rischio? Forse per amore di utopia? No, solo per irritante pressapochismo. L’eterna partita Italia-Germania è sempre lì a dominare il subconscio del nostro rapporto con i vicini tedeschi. Prima li abbiamo accusati di essere “senza cuore” perché, nel proclamare che avrebbero accolto “tutti i richiedenti asilo”, avevano precisato che questo non significava che “avrebbero accolto chiunque”. Si è parlato dell’impossibilità a distinguere tra profughi economici e rifugiati politici, quando in realtà non distinguere significa togliere una possibilità a chi ne ha diritto (per legge e per principio di giustizia) a favore di chi ne ha bisogno, ma non diritto.
È una distinzione che si può legittimamente scegliere di ritenere non più applicabile, ma che non può essere “gabbata” attraverso il ricorso all’impossibilità. Ieri si è parlato di una marcia indietro della Cancelliera Merkel. Ora, al di là del fatto che l’annuncio urbi et orbi di Frau Merkel abbia oggettivamente accentuato la pressione sulle frontiere europee, il fatto più importante è un altro ed è molto più significativo. Non è che i tedeschi e i loro governanti sono diventati come gli italiani e vanno avanti a forza di annunci, fanfaronate e spavalderie. Il fatto vero è che in questo mondo nuovo, di fronte al fenomeno che sta abbattendosi sui nostri confini e sfidando le nostre società, neppure la grande, ricca, potente Germania può farcela da sola. Ha bisogno che anche gli altri facciano la loro parte, come ne avevano e ne hanno bisogno Italia, Grecia e Ungheria.
Da qui si ricavano due lezioni. Una che riguarda la questione delle migrazioni e l’altra l’Europa. Sul primo versante, quella che è straordinaria è la dimensione del flusso. Diecimila persone che ogni giorno arrivano in Ungheria, numeri simili che riguardano Grecia e Italia, non possono essere efficacemente gestite con misure ordinarie. Potremmo chiederci polemicamente come mai, fino a quando l’esodo non ha scelto la rotta balcanica, “l’Europa carolingia” è sembrata credere che la questione riguardasse solo i Paesi del Mediterraneo. Ma servirebbe a poco di fronte all’ovvietà che i flussi sono un fenomeno strutturale destinato a durare (toh, per una volta la Cia ha detto la cosa giusta). Essi sono la macromanifestazione del malfunzionamento di un’economia globale dove la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochissimi (in Ghana come negli Stati Uniti come in Europa), sono il pendant dei flussi finanziari fuori controllo e come quelli generano crisi (finanziarie in un caso, demografiche nell’altro).
Sul secondo versante l’ovvio insegnamento è che solo uniti potremo (forse) farcela. A condizione però che le chiacchiere lascino il posto ai fatti e che l’Europa si assuma tutte le sue responsabilità per provare a gestire i flussi e intervenire immediatamente per rallentarne l’intensità. Comprese le responsabilità militari: che non significa la proposta parolaia e retorica di utilizzare la forza contro gli scafisti (dove? Come?) ma contro quel cancro chiamato Daesh o “Stato Islamico” che questo incremento sta contribuendo a generare. Altrimenti il tweet sulla necessità di “muoversi” piuttosto che “commuoversi” rischia di tornare al mittente.