Il Sole 11.9.15
Dietro la disputa sulle riforme solo uno scontro di potere nel Pd
Nell’appoggio che la destra ha dato e forse darà a Renzi st la chive di lettura del futuro della politica
di Montesquieu
Non c’entra il Senato… Al cuore dello scontro in Senato sulla riforma costituzionale non vi è - o non vi è solamente - il tradizionale, fisiologico, salutare (per gli elettori) contrasto tra Governo e maggioranza da un lato, e opposizioni dall’altro. Come non vi era solo quello nel travagliato dibattito sul cosiddetto jobs act, o sulla “buona scuola”, o altrove. Ben più rovente è la dialettica tra maggioranza renziana e minoranza di sinistra all’interno del partito democratico: qualcosa di più e di diverso da un ordinario disaccordo di merito, superato il quale le relazioni tra le componenti di un partito ritrovano le ragioni della convivenza e ristabiliscono buone relazioni. Vi è piuttosto, uno scontro di filosofia politica e istituzionale, tutto interno al partito che domina il confronto politico, quasi senza veri avversari, dalla nascita del governo in carica. Come a dire: che si trovi o meno un accordo tra maggioranza e minoranza democratica sul Senato – dove si discute con spropositato accanimento di dettagli, rispetto alla reale dimensione della questione -, non passerà molto tempo prima che si riproponga un nuovo motivo di conflitto, ugualmente virulento. E magari ancora su un dettaglio.
Quello che succede nel pd ricorda un fenomeno non raro nelle famiglie: si chiama incompatibilità di carattere, si sfrangia in tanti piccoli pretesti pur essendo un macigno, ed è normalmente insuperabile.
Un vero accordo di convivenza pacifica e duratura non sarebbe teoricamente impossibile: a patto che l’uno dei due contendenti – ovviamente quello al momento più forte, ma in contingente difficoltà -, fosse disposto ad accettare una delle richieste simbolicamente dirimenti della controparte. Ad esempio, l’incompatibilità nella stessa persona e nel medesimo tempo degli incarichi di capo del governo e di segretario del partito democratico. Basterebbe che Matteo Renzi si dichiarasse disponibile, in vista del prossimo congresso, a scegliere tra partito e governo: verosimilmente rinunciando alla guida del partito. Un ritorno ad una regola non scritta, ma costantemente praticata, nella cosiddetta prima repubblica. È importante per la minoranza che si “veda“ in controluce, in sostanza, la provvisorietà del mandato governativo, la sua caducità, la sua non dipendenza dal volere del capo dell’esecutivo. O una speranza di tutto ciò. Nulla può produrre un tale effetto, sul modello dei primi decenni della repubblica, quanto la presenza di un ravvicinato successore in carne ed ossa, paradossalmente anche se vicino alle posizioni del capo del governo in carica; o, quantomeno, di un capopartito che abbia parte nella formazione e nella durata di un governo. Si potrà dire che proprio nella riforma costituzionale in esame ci sono buone deterrenze ad un ritorno a quel tipo di passato: ma la distribuzione accurata del potere produce effetti modificativi dei rapporti di forza. E la guida del partito di governo è una leva potente.
Oppure, per una pace duratura, servirebbe un impegno ad una diffusione del potere, quello relativo agli incarichi di governo amministrativi e a quello parlamentare di prospettiva, con garanzie di sopravvivenza e corposa rappresentanza di tutte le componenti interne negli organismi elettivi futuri.
Accordi di questo tenore, o altri facilmente configurabili, hanno ben poco a che vedere con la riforma del Senato, e ancor meno con l’articolo 2 della stessa: e sarebbero di facile raggiungimento se a separare, a tenere lontane le due componenti non fossero quelle che abbiamo chiamato distanze di filosofia politica ed istituzionale. Se Renzi è completamente immerso nei connotati distintivi della seconda repubblica, quanto a visione maggioritaria e personalistica del potere politico e di governo, di contrarietà a compromessi soprattutto in casa (al punto da essere assimilabile, in questo - quindi, si badi bene, senza conflitti di interesse consolidati -, al protagonista vero del ventennio passato, Silvio Berlusconi), la componente di minoranza del partito è culturalmente portata al potere condiviso, consociato, magari anche solo legislativamente, la cui negazione le ha creato spaesamento dopo il 1994. Potere condiviso quindi, per cultura istituzionale, anche quando quella componente si trovi dalla parte di chi il potere si trova a cederlo, senza egoismi.
Ci sono anche altri motivi, nella incomprensione tra maggioranza e minoranza del pd, e tutt’altro che secondari: ad esempio, il timore che la conduzione personalistica e oligopolistica del partito che allontana la minoranza dalle leve di decisione produca una mutazione genetica dei connotati del partito stesso . Timore soprattutto radicato e radicabile nella componente di radice comunista, che si troverebbe, da egemone quale era, a componente egemonizzata, marginalizzata , gregaria.
Ma anche questi motivi possono essere riassorbiti in un accordo del tipo di quelli accennati ..
La paura di una mutazione dei geni di una comunità politica riporta alla situazione del PSI a seguito della presa della segreteria nazionale e poi del governo da parte di Bettino Craxi, gli anziani lo ricorderanno. Ed anche, recentemente, con la breve ma intensissima parabola che portò Gianfranco Fini a mostrare in controluce il volto di una destra di tipo europeo e comunque autenticamente liberale, e che fu ricacciata con violenza dal capo del partito che non tollerava opposizioni. Due casi analoghi per la insolita qualità di alcuni quadri dirigenti – a titolo di esempio, Giuliano Amato e Claudio Martelli accanto a Craxi; Alessandro Campi e Benedetto Della Vedova con Fini: una capacità di scelta che Matteo Renzi deve ancora dimostrare.
I tre casi - ma soprattutto in quelli che hanno come protagonisti Fini e Renzi - hanno in comune un tifo non contenuto degli avversari tradizionali ed ufficiali, la sinistra che stravedeva per il vecchio capo postfascista, il centrodestra che ha tifato per l’ex sindaco fiorentino.
Ha tifato, o ancora tifa? Nella risposta a questo quesito si trova una delle chiavi di lettura di un futuro misterioso della politica e delle istituzioni italiane.