mercoledì 9 settembre 2015

il manifesto 9.9.15
La libertà della forma, il piacere della scoperta
Bellocchio, "Fare cinema per divertirsi"
intervista di Cristina Piccino


VENEZIA C’è un po’ di De Oliveira in questo magnifico nuovo film di Marco Bellocchio, e non solo per il tocco gotico di fantasmi e vampiri che sfuggono alla riproduzione fotografica. Con il regista portoghese Sangue del mio sangue condivide (affinità o omaggio) la libertà, il gusto del divertimento e della leggerezza parlando di cose «importanti» come il potere, che prenda la forma della religione o della politica occulta, della vita e della morte, della giovinezza e della vecchiaia, del desiderio e dell’imbroglio. Due storie che al di là dei secoli si intrecciano nell’antico convento di Bobbio dove nel seicento venne murata viva una giovane suora con l’accusa di essere posseduta da Satana (è la bravissima Lidiya Liberman capace di recitare con gli occhi e con ogni nervo del corpo e di sedurre con un battito di ciglia). Aveva turbato a morte il suo confessore incapace di reggere lo scontro tra il desiderio per lei e l’imposizione della castità religiosa, una lacerazione tale da spingerlo al suicidio.
Secoli dopo, oggi, nel convento abbandonato si è rifugiato un vampiro, un tipo che controlla nell’oscurità la vita della cittadina, i suoi malaffari e le sue ipocrisie tenendo in piedi una specie di massoneria di provincia che tutto assorbe e tutto risolve, finché non arriva l’ispettore provinciale, una specie di personaggio alla Gogol, e tutti temono di essere scoperti.
Le epoche si sfiorano, i volti sono gli stessi, nel seicento le due sorelle Mai, vivono nella casa scandita da un tempo uguale: messa, pranzi, ricamo, il corpo castigato che freme davanti al bel fratello tormentato del prete ucciso. E’ un soldato ma potrebbe indossare la tonaca, i poteri si scambiano, e quella donna lo ha sconvolto…
Oggi, nella stessa Bobbio ma molto diversa, la città dei Pugni in tasca, dove Bellocchio è nato, è l’ispettore o un truffatore (è sempre Piergiorgio Bellocchio), il tempo non si può fermare dice qualcuno del «clan», e sfugge via, corsa godardiana nei labirinti del convento, dei due giovani innamorati. La suora è sempre giovane, la sensualità intatta, sarà il desiderio a vincere il potere?
«Bobbio come era quando ero ragazzo non esiste più. É scomparsa la dimensione paesana, da provincia, con la sua differenza rispetto alla grande città. Sono gli effetti della globalizzazione, una parola tremenda». E aggiunge: «La scelta di Bobbio si lega ai corsi di cinema che facciamo lì ogni anno, e alla scoperta del convento dove abbiamo girato. Il cinema è anche lo spazio in cui prende forma, e quando ho visto quell’edificio mi è venuto in mente il primo episodio, quello della suora, una donna murata viva per espiare i suoi peccati. L’ispirazione viene dalla Monaca di Monza manzoniana, ma qui abbiamo ribaltato la storia, mescolando anche i riferimenti temporali, le torture come il marchio col fuoco rimandano più al Medioevo».
Violenze, soprusi, il convento tortura e uccide chi osa ribellarsi, come a distanza di secoli il vampiro dal silenzio delle sue stanze segrete manipola le sorti della cittadina. Ci sono oltre al luogo geografico anche molti luoghi cinematografici del regista, e dei suoi film, L’ora di religione, Il diavolo in corpo come la suora ribelle che fa vacillare ogni certezza – «Le donne hanno un carattere, una forza, una vitalità che l’uomo non ha, almeno nella mia esperienza».
Sono punteggiature poetiche più che rimandi, snodi, tracce di una contrapposizione in cui si fronteggiano controllo e piacere della rivolta. «Sono un anarchico ma moderato. Non mi vedo certo in un corteo No Tav a tirare pietre ma il potere mi da fastidio. Non voglio criticare la chiesa, anzi oggi abbiamo un Papa che è più a sinistra della sinistra italiana, ma l’espressione del potere che rappresenta».
E al tempo stesso la sorpresa di questo magnifico film – che speriamo e non per nazionalismo abbia un premio – è appunto la sua libertà. La capacità di meravigliare lo sguardo dello spettatore che Bellocchio ha pur rimanendo nel suo universo poetico (e politico si direbbe…). Senza espedienti pomposi, senza virtuosismi inutili, con l’invenzione e l’intelligenza di un ritmo indocile – che il montaggio di Francesca Calvelli accompagna con leggerezza. «Il discorso sulla forma è molto sobrio. Non è che a un certo punto mi metto lì e dico: ‘adesso voglio essere libero’. Il film ha preso poco alla volta in montaggio la sua forma. Il fatto è che o uno si rimbambisce o cerca di divertirsi in quello che fa».