sabato 5 settembre 2015

il manifesto 5.9.15
Il diritto allo studio è finito: escluso il 25% degli studenti
Università. L'allarme della Rete della conoscenza e dell'Unione degli universitari: l nuovo Isee costringe i borsisti a non presentare domanda
Per una riforma fiscale malriuscita migliaia di studenti rinunciano a un diritto minimo, ormai tagliato e al lumicino
Roberto Ciccarelli

Il 25 per cento degli studenti universitari italiani saranno esclusi dalle borse di studio a causa della riforma del nuovo Isee, il nuovo indicatore della situazione economico-patrimoniale adottato lo scorso gennaio. Per gli studenti della Rete della conoscenza la situazione è drammatica: il conteggio dei redditi esenti ai fini Irpef e la rivalutazione del patrimonio immobiliare per il calcolo dell’Imu costringeranno migliaia di borsisti in graduatoria a non ripresentare la domanda, certi di essere esclusi dal beneficio di un diritto fondamentale. In questo modo non risultano nemmeno come «non idonei» e dunque spariscono dai radar che registrano gli studenti che hanno bisogno della borsa. La situazione è frastagliata, visto che ogni regione segue la propria normativa e lavora su un calendario diverso.
Il sindacato studentesco ha interpellato le singole aziende per il diritto allo studio, ottenendo una fotografia della situazione particolarmente precisa. Il picco negativo delle rinunce lo ha registrato la Puglia con il 30%, segue la Toscana con il 25% e l’Emilia con il 18%. «Perché nessuno ha previsto un impatto così devastante sulla platea degli idonei di borsa, nemmeno il ministero del lavoro che ancora a marzo parlava di un aumento medio dell’Isee di circa il 10%? — domanda Alberto Campailla, portavoce del coordinamento universitario Link – A tutti era sfuggito che il vero problema non sarebbe stato l’Isee, bensì l’Ispe». L’indicatore di situazione patrimoniale equivalente (Ispe) è calcolato dividendo l’importo dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale (Isp) del nucleo familiare dello studente per il coefficiente della scala di equivalenza corrispondente ai componenti del nucleo familiare. Da uno studio dell’Istituto regionale toscano di programmazione economica (Irpet) risulta che il parametro che ha alterato gravemente il sistema delle borse di studio è proprio l’Ispe. La riforma lo ha raddoppiato e su questo dato pesa la rivalutazione della prima casa.
Il dato dimostra che i più colpiti non sono studenti provenienti da famiglie agiate. La Rete della conoscenza chiede l’abolizione dell’Ispe come criterio distinto dall’Isee, anche perché non rientra tra i criteri di selezione degli idonei), una sanatoria per chi è stato escluso quest’anno e l’innalzamento a 23 mila euro della soglia Isee. Per l’Unione degli universitari (Udu) saranno migliaia gli «esodati» dal diritto allo studio. Per questo hanno predisposto uno sportello online (www​.sosi​see​.it) dove si possono compilare questionari e avere informazioni per capire la propria situazione. «L’incremento medio nel passaggio dalla vecchia alla nuova Isee è del 10% e può raggiungere picchi fino al 20% – sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu – Questi studenti risultano più ricchi pur non avendo avuto variazioni di reddito e pagheranno addirittura tasse universitarie più salate. È fondamentale che gli studenti si facciano sentire per difendere il loro diritto allo studio»

il manifesto 5.9.15
Gaza: ospedali al collasso, mancano i farmaci
Senza il 32% dei medicinali di prima assistenza
Le cause: embargo, crisi economica e mancata collaborazione tra Hamas e Ramallah
di Federica Iezzi
Cardiochirurgo pediatra e giornalista freelance

Ogni struttura sanitaria rimasta in piedi nella Striscia di Gaza dopo Margine Protettivo, sta sopravvivendo ad una grave carenza di farmaci e forniture mediche. Risultato degli otto anni di embargo imposto da Israele e Egitto, di un lungo anno di crisi finanziaria all’interno dell’Anp e di una marcata mancanza di cooperazione tra il governo di Ramallah e Hamas a Gaza. Attualmente manca il 32% dei farmaci di assistenza primaria, il 54% dei farmaci immunologici e il 30% dei farmaci oncologici. Sono disponibili solo 260 dei 900 materiali sanitari di consumo essenziali. Secondo il Ministero della Sanità palestinese nella Striscia sono assenti 118 tipi di farmaci (25%) e 334 presidi sanitari (37%).
Alcuni anestetici mancano del tutto. Solo 33 dei 46 farmaci psichiatrici essenziali sono disponibili.
La condizione dei malati di cancro a Gaza è segnata dalla carenza di farmaci antitumorali dovuta al blocco implacabile di Israele del territorio costiero palestinese, e dall’impossibilità di raggiungere ospedali fuori dalla Striscia. Ogni mese solo il 10%, dei 1500 gazawi che chiedono il permesso di ingresso in Cisgiordania, Israele e Egitto per cure mediche, riceve un appropriato trattamento anti-tumorale. Negli ultimi dieci anni il numero dei pazienti con cancro nella Striscia di Gaza è lievitato. Carcinoma tiroideo, leucemia e mieloma multiplo sono i tumori con più alta frequenza. Sotto accusa: l’uso di armi da guerra da parte di Israele in zone altamente popolate, l’uso indiscriminato di fosforo bianco già dall’offensiva militare israeliana del 2008, i consumi di acqua inquinata, l’uso di terreni inquinati per la coltivazione.
Nel dipartimento di oncologia dell’al-Shifa hospital, a Gaza City, vengono trattati 150 pazienti oncologici al giorno, con tre medici, cinque infermieri e solo 15 posti letto. Ogni mese 70–100 nuovi casi. Si lavora con poco meno del 40% dei farmaci antitumorali necessari. Proibita la radioterapia e la terapia molecolare, perché dal valico commerciale di Kerem Abu Salem, al confine con Israele, non entrano né i macchinari per la radioterapia esterna né i nuovi farmaci oncologici. Diagnosi sempre meno accurate per la mancanza dei reagenti di laboratorio e dei macchinari per esami strumentali. I voluti e perpetrati ritardi da parte delle autorità israeliane nel rilascio del nulla osta di sicurezza per l’importazione dei farmaci mettono a repentaglio ogni giorno la vita dei pazienti affetti da cancro.
Il programma di trapianti del rene, unico iniziato a Gaza nel 2013, è praticamente fermo perché Israele proibisce l’ingresso degli immunosoppressori, categoria di farmaci utilizzata per evitare il rigetto dell’organo. Le restrizioni sui valichi di frontiera hanno esacerbato le condizioni di salute degli abitanti di Gaza che convivono con malattie croniche. I farmaci provenienti da Israele sono molto più costosi di quelli che arrivano dall’Egitto. Difficili da procurarsi perfino antipertensivi e antidiabetici. E una volta ottenuti i costi sono spropositati e le consegne lente. In più l’insulina per i diabetici richiede refrigerazione costante, per poter conservare la sua efficacia, che diventa illusoria in un posto in cui manca l’elettricità per 18 ore al giorno. Bloccate anche le donazioni da organizzazioni arabe e internazionali attraverso il valico di Rafah, al confine con l’Egitto, aperto soltanto per 15 giorni quest’anno.
I materiali sottoposti a specifici permessi da parte del Ministero della Difesa israeliano spesso sono semplici pezzi di ricambio per apparecchiature danneggiate da anni di degrado. I cosiddetti materiali nella lista israeliana «dual-use», quelli che secondo Tel Aviv possono avere un duplice utilizzo, militare e non, spesso sono reagenti o prodotti chimici che entrano nel processo di preparazione di medicinali nelle industrie farmaceutiche, che prima soddisfavano il 15% del fabbisogno locale. In entrambi i casi vengono fermati a Kerem Abu Salem. Inoltre i servizi sanitari a Gaza sono tenuti a pagare per il deposito in Israele delle attrezzature mediche acquistate, durante gli interminabili controlli di sicurezza israeliani.

il manifesto 5.9.15
La sconfitta di Varoufakis
di Sarantis Thanopulos

Durante la sua breve guida del ministero greco dell’Economia, Yannis Varoufakis ha subordinato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva.
L’idea buona era che la vita austera, sobria e dignitosa, nulla ha a che fare con le politiche di austerità. L’idea cattiva (che ha avuto fautori illustri a partire da Platone) era che la ragione politica coincide con il ragionare correttamente («orthos logos»). Il pensiero che valuta e calcola tutto in modo rigorosamente logico, dà risultati eccellenti nel campo delle scienze naturali, ma nel campo del governo della Polis, delle faccende umane che ne sono la materia viva, deve fare i conti con la psicologia.
I fattori psicologici politicamente più influenti sono le passioni e la paura. Le passioni sono le forze che trasformano la vita in profondità, la spinta propulsiva di ogni cambiamento reale. La paura è il sentimento dominante, quando le difficoltà che incontra un cambiamento necessario, sfociano in una situazione di instabilità duratura, o troppo repentina, rendendo il futuro imprevedibile.
La sinistra ha promosso trasformazioni sociali profonde (nel solco dell’evento rivoluzionario o di un grande progetto di riforma) solo quando ha saputo farsi interprete di una grande passione, di un movimento di emancipazione delle masse prodotto dal desiderio, dall’apertura senza riserve e esitazioni all’inconsueto. Tuttavia, le passioni sono difficili da gestire: detestano il calcolo e sono moderate solo dal senso di responsabilità, dall’intima necessità di proteggere le cose desiderate. Slegate dalla responsabilità, si riducono a forze puramente destabilizzanti, favorendo la reazione delle forze conservative. La destra ha sempre tenuto conto della paura, incentivandola. Ciò le assegna un indubbio vantaggio tattico: la paura (specie se mescolata con la rabbia e l’odio) si può manipolare facilmente. Convogliata in vie di scarica superficiali, crea inerzia psichica che produce un senso di stabilità rassicurante.
Varoufakis non è riuscito a mantenere lo scontro con Shauble su un piano autenticamente politico, di confronto tra passione responsabile e paura. Il suo attaccamento all’astrazione logica l’ha messo in una posizione simmetrica a quella dei suoi avversari. La debolezza della politica nei confronti dei circuiti finanziari, sta favorendo un potere «iperpolitico», potere puro, al di là di ogni dialettica tra padrone e servo, fondato sull’eccezione dalla regola e dalla vita. Questo potere, che coniuga l’azzardo con l’arbitrio, è l’espressione generalizzata del principio: «Testa vinco io, croce perdi tu». Orientato a produrre profitti, tanto insensati tanto esponenziali, non è capace, per costituzione, di risolvere nessuno dei problemi umani.
Si può subire la prepotenza del più forte senza essere per sempre sconfitti. La sconfitta di Varoufakis è nell’aver fondato un progetto politico sul primato improprio della logica sulle passioni, le incertezze e le paure che attraversano l’Europa. La sua critica a Tsipras deriva dalla fede a una logica stringente, vissuta come verità, che è figlia di orgoglio intellettuale. Dimentica che in politica una teoria, anche la più intelligente, è vera se produce una trasformazione reale.
Tsipras è restato nel campo politico, difendendo la passione europea del suo popolo (l’amore per la pace e la democrazia) e rispettando le sue angosce. Può perdersi in una serie di compromessi interminabile, ma non ha altra strada per resistere all’eccesso di arbitrio che avanza nel nostro mondo. Questo arbitrio, che riduce la vita in quantità manipolabili, nel confronto puramente logico non teme rivali.

il manifesto 5.9.15
Un Pollock schivo
«Charles Pollock. Una retrospettiva», a cura di Philip Rylands al Guggenheim in Laguna
E' il terzo appuntamento di un più ampio omaggio dedicato ai due creativi fratelli, con il restauro di «Alchemy» (1947) e la ricollocazione a parte, nella casa-museo di Ca’ Venier dei Leoni, del «Murale» risalente al 1943
di
Fabio Francione

VENEZIA Apparentemente non ci sono screziature nelle biografie della famiglia Pollock, né tra i genitori né tra i cinque figli, tra cui vanno contati due artisti: Charles, misconosciuto e appartato fino alla conquista di una fama critica postuma, e Jackson, celeberrimo in vita e in morte; quest’ultima violenta come s’addiceva ai maudit americani degli anni ’50 del Novecento; inventore di uno stile rivoluzionario, corteggiato da miliardarie e galleristi. Tra i due intercorrevano dieci anni di differenza. Charles, nato nel giorno di Natale del 1902, era il primo di tutti i fratelli Pollock; Jackson, essendo nato nel 1912, il 28 di gennaio, il più giovane. Se di questi si conosce in modo ampio ed esaustivo sia la biografia sia la cronologia delle opere; di Charles si conosce poco o nulla tranne la permanenza in Europa, a Parigi, nella parte estrema della sua esistenza, andando a morire nella capitale francese l’8 maggio del 1988. Ciò raccontano i saggi biografici contenuti nel catalogo della prima mostra in Italia, visitabile alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia (fino al 14 settembre prossimo), Charles Pollock. Una retrospettiva, a cura di Philip Rylands e terzo appuntamento di un più ampio omaggio dedicato ai fratelli Pollock, con il restauro di Alchemy (1947) e la ricollocazione a parte, nella casa-museo di Ca’ Venier dei Leoni, del Murale risalente al 1943, opere chiavi di Jackson e dell’arte del XX secolo.
Dunque la rapida scorsa alle date evidenziano per Charles, a differenza di Jackson, un’esistenza lunghissima che gli ha consentito di non «congelare» la sua pittura ad un solo periodo. Anzi, attraversando, per certi versi e non solo nell’arte, svolte epocali, è andato malgré soi a sbattere contro rivoluzioni artistiche che poco o nulla avevano a che fare con il suo essere. Più meditativo e riflessivo di Jackson, Charles, ammiratissimo peraltro dal fratello, smontò e rimontò «la scatola» pittorica di Thomas Hart Benton,  maestro di entrambi che, insieme a Hopper e pochi altri, fu uno degli alfieri della pittura realista americana degli anni trenta. Un realismo molto differente dalle tradizioni del Vecchio Continente, il più delle volte antimodernista e, allo stesso tempo, anticipatore di tendenze che saranno preda più della fotografia, del cinema e del video che dell’arte.
Ma, fu l’ascesa di Jackson all’olimpo dei grandi del ‘900 a dirottare la pittura di Charles dal figurativo – tra l’altro sobillato da Benton fu affascinato dagli orditi parietali dei murales messicani (doveva, secondo il suo maestro, guardare al Messico come luogo di avanguardia artistica e a Siqueiros; un tardo omaggio al paese centroamericano è dato da un collage dada fuori tempo massimo e non ancora Nouveau réalisme del ’55) – a un’astrazione, di forte impatto espressionistico, quasi brutale e sconfitta nei soggetti, che però «solidarizza» con quella del fratello. In una decina di anni, insomma, i rapporti si sono ribaltati: due tele in mostra risalenti ad anni eroici come i cinquanta, Don Chisciotte e Dark Script, esemplificano alquanto il periodo. Non che non ci fossero influenze reciproche negli anni quaranta; lì però a giocare d’anticipo erano le sublimi intersezioni tra il Picasso postcubista, arrivato negli States grazie alla «navicella» surrealista scampata al nazifascismo e, ancora una volta, le suggestioni bentoniane, addirittura, di un ventennio prima. Questo sguardo rivolto al maestro d’un tempo, quando Benton morì nel 1975 aveva 86 anni, è una costante da non negare sia per Jackson sia, soprattutto, per Charles.
Ma, è l’accidentale dipartita di Jackson che scatena nuovamente in Charles, fermatosi per qualche anno al solo insegnamento, il demone del dipingere e lo farà con impegno e passione tanto che la sua pittura si emancipa e comincia a dialogare, da posizioni laterali con la nuova astrazione europea, mentre l’osservazione ammirata di Barnett Newman e di Mark Rothko non frena le remore che aveva verso la pittura americana: il più delle volte trascinata in posizioni antitetiche alle sue. Infatti, al contrario della maggior parte dei pittori americani, che aspiravano (o era il mercato a farlo per loro), a un gigantismo produttivo e creativo, Charles Pollock restò fedele al suo lavoro solitario che con l’andar del tempo costruiva impalcature intellettuali rarefatte come il magnifico #95 del ’67, che sembra congelare le teorie colorate kandiskjane in un mondo postumo e senza più riserve morali.