il manifesto 18.9.15
Cgil, il rebus democrazia
La conferenza di organizzazione. Cambiare le regole interne, coinvolgere i precari
Si scontrano due modelli: Camusso punta ad aumentare lo spazio dei delegati, Landini vorrebbe primarie diffuse come in politica
Negli organi elettivi la maggioranza a lavoratori attivi e pensionati
Fischi a Poletti e sfida alle imprese sui contratti: «Tagliano i salari»
di Antonio Sciotto
ROMA È un momento molto complicato, delicato, per la Cgil: attaccata dal governo e dal renzismo, screditata dalle campagne di diversi giornali, non accettata spesso tra i nuovi lavoratori, che non capiscono a cosa possa servire un sindacato. Solo il 4% dei suoi 5,6 milioni di iscritti è precario, atipico o in partita Iva, mentre una buona metà resta composta da pensionati: si deve tentare una radicale trasformazione, o si rischia di soccombere, perché il premier, Salvini, Grillo o le imprese non fanno prigionieri. Con la Conferenza di Organizzazione aperta ieri all’Auditorium di Roma, e che si concluderà oggi, si tenta il colpo di coda: aumentare la partecipazione e la democrazia interna per ridare vita alle strutture, ma il «modello Camusso» è stato già contestato dal leader Fiom Maurizio Landini, che chiede una discussione più lunga e approfondita.
La segretaria generale Susanna Camusso parlerà oggi, mentre a spiegare il nuovo modello di sindacato proposto dalla segreteria confederale ieri è stato il responsabile dell’Organizzazione, Nino Baseotto. «Vogliamo che da domani si possa dire — ha spiegato — che d’ora in avanti qualsiasi segretario generale o componente di segreteria sarà eletto da un organismo composto a maggioranza da compagne e compagni dei luoghi di lavoro e delle leghe Spi». «Per un’organizzazione che fin qui, soprattutto per quanto riguarda le strutture apicali, ha sempre eletto i propri organi esecutivi col voto preponderante degli apparati a tempo pieno, questo è un cambio di passo significativo, non da poco».
L’uovo di Colombo di Camusso starebbe proprio nella rivoluzione delle proporzioni all’interno degli organi elettivi: se finora le segreterie e i segretari di tutte le strutture, fino al vertice di Roma, erano eletti da Direttivi con il 70–80% di presenze dell’apparato (funzionari del sindacato), adesso si potrà essere eletti solo da organismi che presentino un 50% più 1 di lavoratori e pensionati di lega.
Non saranno più i Direttivi a procedere alle elezioni, ma in occasione dei Congressi verrà eletta per ogni struttura un’Assemblea generale dei delegati, composta appunto da un 50% più 1 di lavoratori attivi e pensionati, che procederà a votare i candidati proposti dalle segreterie uscenti. E proprio per interrompere la “continuità” con i passati governi, sarà anche possibile presentare altre candidature, o autocandidature, che dovranno però raccogliere il 15% delle firme all’interno della stessa Assemblea.
Non è la liberalizzazione del sistema che vorrebbe ad esempio Landini, che non ha fatto mistero nei mesi scorsi di puntare a un meccanismo di primarie, che metta uno contro l’altro candidati completamente slegati dalle strutture. A chiarire che questa sarebbe una rivoluzione troppo netta, e comunque sgradita alla maggioranza della Cgil, è proprio Baseotto: «Nel nostro orizzonte — ha spiegato — non poniamo tentazioni movimentiste o derive plebiscitarie: restiamo e resteremo un’organizzazione fondata sul principio della democrazia di mandato». No al «leader di turno che sarà poi libero di dirigere in solitudine — ha concluso — perché nessun direttivo o gruppo di iscritti potrà mai opporsi o rapportarsi alla pari con chi è investito dal mandato di qualche milione di persone».
Un riferimento, forse, anche al potere mediatico di Landini, sicuramente più presente in tv ed esposto ai riflettori di una più defilata Camusso. Il leader della Fiom comunque non si fa imbrigliare facilmente, e nei suoi 12 minuti di intervento (un semaforo stacca l’audio al microfono se si sfora), carichi di critiche alla segreteria confederale, ieri ha raccolto diversi applausi, a tratti entusiastici.
Landini non ha reso esplicita la sua controproposta, ma ha chiesto che «la discussione non venga chiusa oggi, con sole 10 ore di dibattito, ma che al contrario, se si vuole concludere con un documento unitario, venga aperta». Perché, ha detto, «se hai 5 milioni e mezzo di iscritti, non puoi dire che il confronto è stato ampio se ne hai coinvolto soltanto 19 mila, pari allo 0,04%». «E il problema non è solo la trasparenza o dire quanto guadagniamo, ma ricostruire un’unità dei lavoratori, allargando ad altri temi, dal reddito minimo alla scuola, parlando con quelli che non rappresentiamo, altrimenti saremo sempre visti come chi ostacola il cambiamento».
Oggi si vedrà se la conclusione della Conferenza sarà unitaria. Si deve aggiungere che la Cgil propone la contrattazione cosiddetta «inclusiva» (diritti anche per i precari) e di sito, mentre si prepara a presentare a breve il nuovo Statuto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, da contrapporre al Jobs Act.
Ieri nel pubblico era presente, seduto in prima fila, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: che non solo ha ricevuto critiche dal palco, indirizzate al Jobs Act e alla sua riforma dei contratti a termine, ma si è preso anche una bella salva di fischi dal pubblico.
La Cgil ha chiesto alla Confindustria di «rinnovare i contratti aperti prima di discutere di un nuovo modello contrattuale», spiegando, polemicamente, che le imprese «hanno solo l’obiettivo di ridurre i salari».
Al governo, la Cgil chiede di varare una legge sulla rappresentanza, «traducendo l’accordo del 2014», e di «riformare le pensioni e adeguare i contratti del pubblico impiego già con la legge di Stabilità». Urgenze che non si possono scambiare «con il taglio delle tasse sulla prima casa, soprattutto se l’esecutivo pensa di concederlo a tutti, anche ai ricchi».