domenica 6 settembre 2015

Corriere La Lettura 6.9.15
Non di soli divieti vive la bioetica
Lo psicologo Steven Pinker contesta l’attitudine di chi invoca genericamente la “dignità umana” per fermare la ricerca
di Chiara Lalli


All’inizio dello scorso agosto il celebre psicologo Steven Pinker ha scritto un durissimo articolo contro la bioetica che si potrebbe sintetizzare con: «Togliti dai piedi».
Con quale bioetica se la stesse prendendo era molto chiaro. Tuttavia non pochi hanno risposto che no, non si può pensare che tutto sia lecito, la ricerca va limitata e sarebbe da irresponsabili fare diversamente. Ovvero, chi non vuole capire è bravissimo a distrarsi, e allora Pinker ha chiarito ulteriormente in un’intervista qualche giorno più tardi. Ogni volta che vietiamo o restringiamo la ricerca — spiega — dovremmo valutare i danni verso le persone che non potranno beneficiarne. Ogni volta che vietiamo, poi, dovremmo farlo usando ragioni forti e valide, e non basandoci su giudizi moralistici, intuitivi e contraddittori, su improbabili piani inclinati o tramonti dell’Occidente, sul rischio che la gente finisca per vendere i propri organi su eBay o su perverse analogie con i nazisti. Provate a discutere di aborto o eutanasia, e al secondo o terzo passaggio sarete investiti da un’accusa insensata, ma che ha sempre molti sostenitori: «Sei come Hitler!». Significa non avere argomenti.
C’è un’altra profonda incomprensione in quasi ogni dibattito bioetico: che non fare nulla sarebbe moralmente neutrale e meno rischioso. Ovviamente non è vero, se non sul piano psicologico: non agendo è più facile assolverci. Ma le nostre omissioni non sono prive di implicazioni e non sono intrinsecamente preferibili.
È inevitabile che Pinker abbia come obiettivo polemico anche commissioni ufficiali e organi istituzionali. Come ha commentato la filosofa Bonnie Steinbock, molti bioeticisti, tra cui alcuni componenti della commissione presidenziale statunitense, usano l’espressione «dignità umana» come una mazza per criticare qualsiasi innovazione tecnologica che non gradiscono. È a loro che Pinker rivolge la sua critica. A coloro che usano ogni possibile scusa per bloccare la ricerca, proprio come accade in Italia.
Basti pensare alla legge 40 sulle tecniche riproduttive (ormai in gran parte demolita dalla Corte costituzionale), alle direttive anticipate di trattamento (il cosiddetto testamento biologico), alla sperimentazione embrionale e a tante altre questioni cui si dice no anche prima di analizzarle. Mentre tutti sembrano dimenticare che «dignità» non vuol dire nulla, perché ognuno riempie quella parola di significati diversi. Potremmo includere nell’elenco anche il Comitato nazionale per la bioetica italiano, nato come organo consultivo e divenuto sempre più la caricatura di un parlamento, gravato da irrazionalità, paternalismo, giudizi intuitivi e moralistici. Termini come «dignità», «sacralità» o «equità» sono diventati armi immobilizzanti, pretesti per ammantare la paura di un alone di razionalità (impossibile non pensare a un altro articolo di Pinker uscito nel 2008, The Stupidity of Dignity ).
La bioetica è stata trasformata in un cane da guardia e il suo unico ruolo sembra essere vietare e condannare moralmente. Che spesso si pensi che sia sufficiente sostenere che qualcosa sia immorale per vietarla, è un altro effetto collaterale onnipresente. Non si salvano nemmeno alcuni scienziati, sedotti da concetti insensati come «identità/inviolabilità genetica» o compatti nel proporre una moratoria sul Crispr, cioè la più innovativa tecnologia per correggere i geni difettosi. Evitare o prevenire i danni, ecco quello che bisognerebbe fare. Non essere spaventati dalla propria ombra e dalla hybris . «Gli scienziati dovrebbero lavorare per demolire i tabù irrazionali, non assecondarli».
Se ancora non fosse chiaro, Pinker non suggerisce di eliminare i divieti e non inneggia alla scienza «libera e selvaggia», ma suggerisce un metodo diverso. La bioetica dovrebbe cioè argomentare e non vietare come un imperativo aprioristico. E andrebbe usata come uno strumento, non considerata una verità rivelata. Una reazione simile c’era stata in occasione della pubblicazione di Contro la bioetica di Jonathan Baron (Raffaello Cortina), il cui bersaglio polemico era (nonostante il titolo, e come per Pinker) la cattiva bioetica, il peso normativo eccessivo, le condanne senza giustificazioni.
Insomma, la domanda è: possiamo fare una bioetica migliore? È sintomatico che molte volte ai bioeticisti si chieda: «Da che parte stai?». La risposta giusta è: da nessuna parte, o meglio dalla parte di un ragionamento corretto. E forse pure questa è una «parte», ma in senso diverso da quello che la domanda suggerisce. L’importante è argomentare, non di che squadra siamo. Spesso il primo passo falso è proprio una domanda sbagliata o mal formulata. Per non parlare del fatto che si discute sullo statuto dell’embrione o sulla nutrizione artificiale senza sapere nemmeno che cosa sia un embrione o una tecnica come la Peg.
Le critiche di Pinker e di Baron si potrebbero applicare non solo agli argomenti mediocri di molti bioeticisti, ma pure alle reazioni che criticarli comporta. Se dico che quel ciambellone è cattivo, non sto insultando i ciambelloni come categoria. Certo, ultimamente molti vengono male, ma di nuovo non è scadente il ciambellone in sé. Sono i pasticceri che sono pasticcioni e cialtroni, e anche se sono molto numerosi ciò non significa che non si possa provare a diffondere una ricetta più buona. E quando ci criticano dovremmo evitare di fare la lagna o offenderci, soprattutto quando la critica è rivolta a un determinato modo di fare.
Che forma di inconsolabile narcisismo, poi, prendercela perché siamo convinti che il biasimo ci riguardi «in quanto», e reagire a quella critica protestando senza capire e senza ragionare. D’altra parte i bioeticisti non ammetterebbero mai i loro errori, scriveva Baron. Com’è facile che accada per gli appartenenti a una casta qualsiasi: difesa e orgoglio di appartenenza. Un «sacerdozio laico» privo di una teoria coerente e razionale, cui governi e istituzioni chiedono consigli o assoluzioni, sedotto dalla tradizione (suona familiare?) e da giudizi intuitivi. Due difetti molto pericolosi nel prendere decisioni. E la bioetica ha molto a che fare, ovviamente, con il prendere decisioni. Se la nostra bussola è sbagliata, la destinazione sarà quanto meno dubbia. Non prendiamocela con chi ci avverte che dovremmo calibrarla.