domenica 6 settembre 2015

Corriere La Lettura 6.9.15
Le emozioni sono un’arma del potere
Oggi il terrorismo aggredisce le menti ancora più dei corpi E chi comanda vuole sempre gestire paure, dubbi, passioni Ma gli sfugge la coscienza che diventa racconto dal basso
di Alberto Melloni


In agosto 2.600 visitatori d’ogni parte del mondo sono calati su Jinan, il capoluogo dello Shandong. La città dista meno di due ore di treno da Pechino, in direzione sud-est: ed è separata dall’ultima delle innumerevoli tangenziali di forma quadrata che incorniciano la megalopoli capitale (siamo in Cina e dunque ciò che è celeste è tondo, e ciò che è terrestre è quadrato) da pochi minuti di frutteti nell’aria tersa che distingue l’uno dall’altro i fumosi agglomerati cinesi.
Andavano, quegli intrusi, in una regione che conserva alcuni fra i siti preistorici più antichi di Cina, e in una città dove ha sede una della trentina di università fondate dai protestanti americani fra fine Ottocento e i primi del Novecento (i cattolici ne crearono tre) e che ora nella Repubblica popolare sono università statali. Andavano per il Congresso del Comitato internazionale di scienze storiche, il XXII della serie, il primo tenuto nel «Paese di mezzo». La stampa cinese ha usato una buffa metafora per descrivere questo congresso della rete globale degli studiosi di storia: li ha definiti «i giochi olimpici della storia», forse per sottolineare che le delegazioni nazionali davvero avevano qualcosa di globale e per segnalare che, come nello sport, anche nella ricerca storica ci sono ormai specializzazioni disciplinari molto nette. Esse hanno superato la partizione didascalica delle storie in sequenza cronologica antica-medievale-moderna che, con l’aggiunta della contemporanea, esprimevano la fiducia di poter sussumere la storia «universale» entro metodi, attenzioni e priorità tutte interne alla cultura occidentale; e che dunque descriveva una storia i cui principi «scientifici» dovevano giustificare ogni noncuranza ed omissione.
In realtà l’incontro di Jinan ha visto esprimersi in una miriade di affollate sessioni le tendenze di una disciplina che deve di continuo ridefinire i propri orizzonti: quelli che, appunto, stanno negli aggettivi o nei genitivi che accompagnano la generale denominazione di «storia». Cose da specialisti o, peggio, utili solo a quella forma di turismo stipendiato che i professori hanno saputo inventare? Forse sì, ma anche qualcosa di più. Perché il modo in cui la ricerca storica si concepisce è anche specchio di una società e può servire a tutti per vedere quali rughe e quali cicatrici porta il viso del nostro vivere comune.
A Jinan, va detto in premessa, è stato possibile toccare con mano la validità di quello che con alcuni amici chiamiamo con rispettoso affetto «il teorema Galasso»: e cioè la percezione che, nonostante non sia poco o poco grave il provincialismo che affligge la nostra cultura, è proprio quel provincialismo che produce discrete quantità di esterofilia isterica; quella convinta che sia meglio dire una sciocchezza in un discreto Globish (l’inglese dei venditori sui mercati mondiali) che una cosa seria in un meno stentato italiano, o che sia miglior giudice dei nostri giovani ricercatori uno «straniero», che se mai non sa leggere quel che uno ha scritto, di un nostrano prodotto di scuole in lotta cieca e forsennata fra loro.
La delegazione italiana guidata da Andrea Giardina, che rappresenta autorevolmente il nostro Paese nel Comitato, contava una sessantina di persone e ha invece portato (parlando un ottimo Globish e talvolta perfino un discreto English) una serie di studi che davano il senso di una comunità vivace, generazionalmente varia, attiva in patria e fuori nei settori di ricerca nei quali non ci mancano specialisti riconosciuti. Ma a Jinan sono anche emersi quei problemi che segnano gli studi con tendenze che, a seconda dei punti di vista, possono apparire mode, intuizioni o sudditanze a inveterate abitudini (che gli studi religiosi fossero divisi fra predicazione dei missionari e dialettiche fede-scienza era appunto una questione di pigrizie dure a morire). E fra queste tendenze la più interessante era certo quella relativa alla storicizzazione delle emozioni.
Sia l’Australia, con un’istituzione ad hoc della University of Western Australia, sia la Germania, con l’onnipresente Max Planck a Berlino, hanno infatti aperto centri per studiare il peso, la forma, l’efficacia delle emozioni nel processo storico. Il tema ci appare oggi vicinissimo nelle espressioni di Terrore mediatico , come lo ha definito un bel libro di Monica Maggioni, che non mirano a colpire la forza militare o le infrastrutture del nemico, ma solo le sue emozioni, suscitando una paura capace di mettere in discussione i principi fondanti del proprio stile di vita collettivo.
Ma la profondità storica di questa analisi può andare a ritroso, scovando, tempo per tempo, epoca per epoca, contesto per contesto, i riscontri puntuali di questi processi a ogni livello della storia. Si può così andare dalla microstoria di Mitsuko Aoyama, la moglie giapponese del diplomatico austro-ungarico Heinrich Coudenhove-Kalergi, che ha consentito a Radmila Švarickova Slabakova di ricostruire il risvolto emozionale dell’incontro tra Oriente e Occidente attraverso il modo in cui ciascuno dei due coniugi scriveva dell’altro ai suoi connazionali, fino alla storia economica dello stress; dalla gestione emozionale della vita interiore della spiritualità gesuita alla ricostruzione delle «emozioni eccitate» attorno alla esecuzione dell’opera musicale Morte di Orfeo (1619) di Stefano Landi.
La questione non è solo di registro narrativo e non si limita al ricorso a un esercizio che anziché esprimersi in termini di intenzioni-volontà-decisioni-atti, storicizza anche dubbi-paure-attese-passioni. C’è infatti in gioco molto di più per due motivi.
Da un lato le emozioni che si possono storicizzare non cessano di avere a che fare con il potere: è il potere — il potere violento e repressivo — che gestisce l’emozione collettiva e individua i «martiri» in funzione pedagogica, e stigmatizza la colpa dei «carnefici», se mai, come appariva anche in quei giorni del settantesimo della vittoria cinese sui giapponesi, condannando l’insufficienza del pentimento che questi esprimono.
Dall’altro lato la storia delle emozioni diventa visibile solo quando fuoriesce dallo spazio inaccessibile della coscienza (secondo il criterio di Ranke che tutta la storiografia occidentale condivide) e diventa qualcosa di «altro»: diventa racconto di sé — e l’esperienza dell’archivio dei diari di Pieve Santo Stefano mostra come la nostra ricerca sia stata non da oggi attenta a questa specificità — e diventa racconto di un pathos collettivo che mira a diventare ethos.
Storicizzare le emozioni è dunque un altro modo per entrare nel compito proprio della storia: ma è anche il solo modo di uscire dal sofisma tipico di quella storiografia che davanti ad ogni cosa sa solo dire che le cose sono più complesse, più ambigue, più intricate di quanto appaiono. Come se servissero lo studio e il metodo per sapere che ogni cosa, anche la più insignificante, è nel suo piccolo complessa, ambigua, intricata: ma che alla fine si fissa perché produce un accadimento col quale si misurano altre cose, vite di donne e di uomini, istituzioni e utopie, e dunque anche le emozioni.
Restituire al lavoro storico questa dimensione non vuol dire rinunciare a fare storia per fare una cosa diversa, e nemmeno vuol dire arrendersi alla mediocrità culturale di un tempo che ha espulso la storia dalla formazione politica, con effetti politici vistosissimi: vuol solo dire imparare ad usare altri bisturi per aprire la superficie dei presenti lontani e provare a comprenderli, facendo sperimentare ai propri lettori che anche comprendere può essere una emozione.