lunedì 7 settembre 2015

Corriere 7.9.15
Nilüfer Demir
“Sono venuta al mondo per scattare quella fotografia del piccolo Aylan”
di Giusi Fasano


BODRUM Nilüfer Demir arriva trafelata, infilata in un paio di jeans e una maglietta nera, con la faccia stravolta di chi ha dormito troppo poco. Segni particolari: la fede al dito.
«Questa è l’ultima volta, poi giuro che non ne parlo più. Penso di essere nata per quegli scatti ma adesso devo guardare avanti». Nata per quegli scatti? «Esatto. Io credo che ciascuno venga al mondo con un motivo preciso, un compito. E credo che le fotografie del piccolo Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum fossero il compito della mia vita. Sono venuta al mondo per scattare quelle foto e per scrivere questa storia, spettava a me».
Ha raccolto immagini, Nilüfer, ma anche parole. Quelle del gendarme che ha portato via il bambino dalla spiaggia e che ha rilasciato a lei e al suo collega Yasar Anter una lunga intervista (l’unica). Si chiama Mehemet Çiplak, 39 anni, padre di un bambino di sei anni.
Ai due giornalisti racconta del momento peggiore, quando si è avvicinato. «Dicevo fra me e me: Dio fa che sia vivo. Ho cercato di capire se ci fosse un segno di vita ma niente. Non c’era più niente da fare. Mi sono sentito tristissimo». Mehemet si è sentito chiedere tante volte in questi giorni: «Come fai a portare con te un peso così enorme?». Il peso di quel momento e di quell’immagine: lui che si allontana verso un sasso, con Aylan fra le braccia che sembrava dormisse. «Quando l’ho visto ho pensato subito a mio figlio e per un momento ho provato a immaginare suo padre, è stata una sensazione tragica, non so nemmeno come descriverla. All’improvviso più che un militare che stava facendo il suo lavoro mi sono sentito come un padre che teneva in braccio il proprio bambino».
Nella gendarmeria del ‘97, Mehemet racconta che gli è capitato altre volte di essere fotografato mentre faceva il suo lavoro e di vedere poi la sua fotografia su qualche giornale locale. «Ma così mai...» si emoziona. «Non avevo fatto caso che qualcuno stesse facendo fotografie», dice ai due giornalisti turchi. «Stavo lavorando, facevo i rilievi e quando lavoro il mio compito è concentrarmi sulle cose che faccio. Poi, quando ho visto quell’immagine che ha fatto il giro del mondo... non l’avrei mai detto. Vedermi sulle pagine dei giornali è stato come rivivere quei momento daccapo. Forse tutto questo può servire a trattare diversamente il problema dei rifugiati, questa vergogna dell’umanità. Se servisse almeno a questo mi sentirei un po’ meno triste».
Mehemet, scrivono Nilüfer e il collega Anter, è a Bodrum dal 2012. Lui ricorda parla del suo lavoro e ricorda: «Una volta un uomo si è ucciso davanti alla moglie e ai figli e io ero lì mentre succedeva. Le urla di quella donna e di quei ragazzi erano fortissime. Sento ancora le loro voci nelle mie orecchie».
Adesso c’è un’altra «voce» che Mehemet non potrà più scordare: quella mai sentita di Aylan che, come dice Nilüfer, «si fa sentire con la potenza delle immagini, perché le immagini sono capaci di catturare l’attenzione, di costringere le persone a fermarsi e a riflettere anche sulle parole. Le foto di Aylan sono la sua voce che non c’è più».
Chi vive lungo la costa, in quest’angolo della Turchia, racconta che certe notti si sentono urla venire dal mare, dal buio. Succede quando i gommoni si capovolgono, quando le vite di decine di disperati annaspano nell’acqua. Perché la gendarmeria non blocca questa gente prima che parta? chiediamo a Nilüfer. «Le barche sono troppe credimi» risponde lei. «Non c’è gendarmeria che possa fermarle. Quest’anno sono tutti siriani e fino all’altra sera partiva una barca ogni dieci minuti. Adesso che gli occhi del mondo guardano tutti da questa parte non succede più nulla». Niente. Fino a quando i riflettori saranno spenti. Fino alla prossima notte di partenze, al prossimo bambino restituito dal mare.