domenica 20 settembre 2015

Corriere 20.9.15
La doppia morale dell’Isis: distrugge e contrabbanda
di Luca Scarlini


L’ Isis dal 2014 ha scelto come bersagli i templi e le opere d’arte del passato premusulmano. Il califfato afferma di seguire il pensiero di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), fondatore del Salafismo, corrente di pensiero rigorista all’interno dell’Islam sunnita. Nemico giurato dei Sufi, e del loro culto dei santi fondatori, espresse un pensiero fortemente anti-iconico, che portò in seguito anche alla distruzione di antichi monumenti musulmani. La tremenda quanto efficace campagna mediatica del califfato sposta sempre più l’obiettivo sull’arte, a partire dalle furibonde cronache dell’attacco al museo di Mosul nel febbraio scorso. Le immagini di accanimento contro le statue assire con trapani e martelli sono entrate nella testa dell’Occidente. Eppure molti studiosi hanno avanzato dubbi sul fatto che i reperti distrutti fossero dei falsi. Esaminando il video di YouTube, i curatori di questa importante collezione (che avevano messo comunque al sicuro il 70% dei reperti a Bag-dad) hanno individuato elementi incompatibili con le statue autentiche. Potrebbe trattarsi di un’azione di propaganda che nasconde un altro uso dei reperti? Possibile: le effettive distruzioni delle opere non escludono anche strategie di commercio clandestino.
Dal 2014 i media inglesi e americani hanno ampiamente illustrato come l’Isis in realtà usi il pensiero contro le immagini come alibi ideologico per nascondere una sistematica attività di contrabbando di reperti antichi. Il meccanismo del terrore dei dittatori iconoclasti non esclude certo il mercato, anzi. Stalin vendeva sottobanco icone preziose, dopo aver proibito la religione; Pol Pot, nemico della civiltà, commerciava in reperti khmer.
Il nero regno dell’Isis si estende tra Iraq e Siria: tutte le culture sono passate da qui e hanno lasciato il loro segno. Nei territori occupati si svolgono sistematiche campagne di acquisizione di oggetti dai musei ma anche nuovi scavi, per ottenere il massimo possibile di denaro da convertire in armi e propaganda. Secondo numerose fonti il sistema è semplice: l’Isis trattiene il 50% del ricavato di qualsiasi opera e provvede per diversi canali all’esportazione clandestina in Occidente. Si tratta soprattutto di oggetti di piccolo o medio valore, venduti per solito a quotazioni leggermente inferiori al consueto, per facilitarne la smerciabilità. Sono quindi ceramiche greche, frammenti di statue romane, monete bizantine, testimonianze cristiane, mentre il repertorio islamico, a quanto pare, prende la via degli emirati. Troppo complesso sarebbe cercare di smerciare opere note agli studiosi, mentre è sempre possibile piazzare materiali di recente escavazione, non catalogati.
Insomma, tutto si svolge secondo il meccanismo agito da sempre dalla criminalità organizzata italiana, che piazza sul mercato reperti spesso straordinari di cui nessuno sa niente. Basti ricordare il meraviglioso trapezophoros (sostegno di un tavolo rituale), scavato illegalmente a Ascoli Satriano (Foggia) negli anni 70 e finito al Getty Museum di Malibu (che lo ha restituito all’Italia solo nel 2007). La catena organizzata dall’Isis comprende quindi non pochi archeologi e galleristi complici. Lo ha ben dimostrato David Gill, docente alla Suffolk University, che nel gennaio scorso ha svolto una ricerca per Bbc Radio 4 a Londra, registrando la voce di vari antiquari che gli offrivano con la massima tranquillità materiali appena arrivati dall’Iraq e dalla Siria.
Insomma i reperti antichi per l’Isis sono l’equivalente di quello che nel convulso panorama africano sono i blood diamonds . Un fenomeno diffuso, capillare, come ribadisce Christopher Marinello, direttore dell’organizzazione Art Recovery International, con sede a Londra. Un vero e proprio mercato d’arte del terrore, che prende di mira i conservatori di musei e siti archeologici nei territori occupati, torturati perché rivelino dove hanno nascosto gli oggetti più preziosi e poi uccisi.