giovedì 17 settembre 2015

Corriere 17.9.15
Francesco in America
La doppia visita del Papa a Castro e al Congresso Usa da capo spirituale di un continente a leadership cattolica

La marcia di avvicinamento alle Americhe è stata tutt’altro che casuale. Non conta tanto la Giornata mondiale della gioventù in Brasile dell’estate del 2013: quella era stata preparata dal predecessore, Benedetto XVI. Il viaggio che Francesco ha voluto fortemente, invece, è stato quello del luglio del 2015, scegliendo tre nazioni periferiche, povere, «minori» come Bolivia, Ecuador e Paraguay. Terre dove la sua enciclica Laudato si’ , con forti echi ecologici e sociali, poteva tradursi immediatamente in realtà; e dove il Papa ha potuto rintuzzare le critiche contro un’enciclica «verde» e «militante», arrivate dai conservatori statunitensi. Anche se in uno dei suoi discorsi, quello ai movimenti popolari, qualcuno ha notato una durezza eccessiva contro il capitalismo. Francesco si è anche sentito rimproverare di parlare poco di classe media. Ma, ha spiegato, «il mondo è polarizzato, la classe media diventa sempre più piccola e la polarizzazione tra ricchi e poveri è grande».
Dietro le sue parole si intravede la sagoma delle villas miserias , le sterminate periferie suburbane di Buenos Aires; e di centinaia di altre simili a Rio de Janeiro, San Paolo, e in altre megalopoli. È lì che Bergoglio ha plasmato la sua «teologia del popolo» alternativa a quella della liberazione. Il groviglio di problemi che queste realtà offrono sono il primo dono pesantissimo che porge agli Stati Uniti: una frontiera avanzata non solo per la società ma per la Chiesa. Per questo l’ex arcivescovo di Buenos Aires non può essere etichettato con categorie europee o, peggio, italiane. È un prete urbano, anzi di una megacity. Il secondo «dono» portato a Washington a fine settembre è Cuba: la tappa ultima del suo passaggio a Sudovest. I tre giorni nell’isola caraibica distrutta dalla dittatura comunista della famiglia di Fidel e Raúl Castro, ma anche dall’embargo statunitense, rappresentano una visita all’insegna della geopolitica...
La genuflessione corale di tutti i capi di Stato latinoamericani, conservatori e progressisti, nei confronti di Francesco lo porta al cospetto di Obama e del Congresso degli Stati Uniti come il capo spirituale dell’intero Sudamerica: la nuova figura egemone di un continente che sta cercando una nuova unità e nuovi equilibri economico-sociali. «I popoli latinoamericani devono dialogare per creare la Patria Grande», ha insistito il Papa sul volo che lo riportava a Roma dall’Ecuador a metà luglio. La novità storica è che questo dialogo non avviene più sotto le insegne del socialismo marxista o delle dittature militari sostenute più o meno apertamente dagli Usa in chiave anticomunista. La leadership è cattolica. Anzi, papale. Resa possibile dalla statura e dai cromosomi culturali di un pontefice «meridionale».
Francesco è l’uomo della riconciliazione. In America Latina, questo significa far cadere l’ultimo «muro di Berlino», e cioè il «muro dell’Avana»; e altri muri invisibili, nascosti negli archivi segreti e nella memoria collettiva di quei popoli. Significa consegnare al passato le guerre civili combattute in nome del marxismo e del capitalismo, con la Chiesa cattolica e i suoi episcopati nel ruolo di vittime, a volte di complici. Ha colpito molto il regalo fatto a Francesco dal presidente boliviano Evo Morales: un crocifisso con la falce e il martello, opera di padre Luís Espinal, ucciso negli anni Ottanta perché difendeva i poveri e la democrazia. Qualcuno ha voluto vedere un abbraccio postumo della teologia della liberazione di matrice marxista da parte del pontefice. In realtà, con quel gesto Morales ha riconosciuto al Papa una leadership mai attribuita prima alla Chiesa.
L’Unione Sovietica è morta e sepolta, e non ha più nessun potere su quel mondo. Rassicurati, gli Usa si sono defilati. Ed è emersa la sfera d’influenza di un romano pontefice argentino. Negli Stati Uniti arriva dunque da capo di un Sud del mondo da intendere ben al di là dei confini latinoamericani; rintracciabile in ogni periferia, dall’Europa all’Africa, agli stessi ghetti statunitensi. Su questo sfondo si comprendono meglio i suoi viaggi nelle zone apparentemente più eccentriche. Ma per paradosso il suo viaggio più eccentrico è proprio quello nell’America del Nord: potenza industriale, militare, economica e cuore dell’«impero» dell’Occidente. Quando gli hanno riferito delle critiche alla sua enciclica sui cambiamenti climatici provenienti dagli Usa, Francesco ha risposto, sornione: «Fino a oggi avevo studiato i dossier su questi tre Paesi bellissimi. Ora studierò Cuba e gli Stati Uniti».
In realtà li sta studiando da mesi, attraverso documenti e analisi affidate ad alcuni vescovi e cardinali americani fidati, e a un gruppo ristretto di consiglieri latinoamericani. Ma soprattutto, gli Stati Uniti stanno studiando lui. La Religious Newswriters Association ha organizzato a Filadelfia nell’agosto del 2015, presso la Pontifical University Santa Croce, una giornata intera di dibattito sulla Chiesa negli Usa: con molti vescovi statunitensi e duecento giornalisti dei maggiori media americani. E come «Vatican insiders», e cioè conoscitori del Vaticano dal di dentro, ha chiamato padre Thomas Rosica, canadese, direttore della tv cattolica Salt and Light, la più importante del suo Paese; e l’uruguayano Guzmán Carriquiry, vicepresidente del Pontificio consiglio per l’America Latina, consigliere e amico storico di Bergoglio.
A loro è toccato aprire la strada alla comprensione di Francesco; e spiegare quali contrapposizioni avrebbe cercato di evitare, scegliendo un terreno che andasse oltre le categorie dei «liberal» e dei «conservatori», che per anni hanno avvelenato anche l’episcopato statunitense. Intanto, c’era l’ammissione che il Papa non conosceva «a fondo, in prima persona questo grande Paese, la sua società complessa e dinamica». Doveva affidarsi «alla tradizione e alla sapienza della Santa Sede», e stare «in attento ascolto dell’episcopato statunitense». Si fotografava la realtà di un episcopato diviso secondo categorie e schemi nei quali il Papa rifiuta di farsi ingabbiare. Secondo i suoi esegeti, Francesco va molto al di là della polarizzazione tra conservatori e liberal. Additano tuttavia il rischio di una saldatura tra i due fronti statunitensi, tentati di vedere nel pontefice chi vorrebbe cambiare la dottrina della Chiesa. Accusa insidiosa, confutata opponendole la capacità di riscoprire in forme sempre nuove il messaggio evangelico…
Era una difesa preventiva di Bergoglio: il tentativo di neutralizzare in anticipo accuse come quella di essere in contrapposizione coi suoi predecessori; e di rinunciare a difendere i valori non negoziabili. L’insistenza sull’immigrazione come ricchezza da non disperdere né umiliare era il corollario naturale di questa impostazione. Si legava all’esigenza di arricchire la libertà di professare la propria fede, e di permettere la migliore convivenza tra religioni diverse: una caratteristica sulla quale storicamente gli Stati Uniti erano stati maestri. Ma gli uomini di Bergoglio avvertivano anche che dal Papa non sarebbe potuta mancare «una parola forte» sugli immigrati ispanici. Si sottolineava con orgoglio che erano stati i primi esploratori, colonizzatori e missionari degli Stati Uniti.
Francesco avrebbe invece insistito sul fatto che «la pastorale ispanica non è un’aggiunta a una supposta pastorale ufficiale anglocentrica»: anche perché ormai i «latinos» stanno diventando la metà della popolazione. Il suo viaggio diventa dunque anche una rilettura della storia nordamericana. La decisione di Francesco di canonizzare a Washington il 24 settembre del 2015 frate Junípero Serra, un francescano del XVIII secolo considerato «l’apostolo dell’America», ha il significato di riscoprire le radici di un cattolicesimo a stelle e strisce arrivato in California prima delle grandi migrazioni di irlandesi, italiani, polacchi sulla costa atlantica. D’altronde, era stato lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, nel suo saggio Una nazione di immigrati , a sottolineare la rimozione di un’intera fase della storia statunitense negli Stati del Sud.
«Disgraziatamente», scriveva Kennedy, «sono troppi gli americani che credono che l’America fu scoperta nel 1620... e dimenticano la formidabile avventura che ebbe luogo nel XVI e all’inizio del XVII secolo nel Sud e nel Sudest degli Stati Uniti». Era una storia scritta dai vincitori e per i vincitori, secondo molti latinoamericani. Figlia, a loro avviso, di pregiudizi anticattolici e anti ispanici. Pregiudizi che tardano a morire. Junípero Serra è considerato invece parte integrante dell’epopea missionaria cattolica dimenticata: per questo lo Stato della California fece installare una sua statua nella Sala dei Notabili del Campidoglio di Washington nel 1931. Il fronte protestante ha descritto quel sacerdote di Maiorca arrivato in California a metà del 1700 come un colonialista che convertiva a forza i nativi indiani. Ma la narrativa cattolica vede in questa descrizione negativa soprattutto il tentativo di coprire la colonizzazione violenta dell’Ovest ai tempi della «febbre dell’oro» da parte yankee...