sabato 12 settembre 2015

Corriere 12.9.15
Le nove guerre civili
Dall’Afghanistan alla Nigeria le crisi che producono ondate di profughi E continueranno a farlo nel futuro
di Michela Farina


LONDRA Lo ammette anche l’angelico Steven Pinker, che nel 2011 pubblicò un ponderoso saggio intitolato «Il declino della violenza». L’ha ammesso ieri sul quotidiano The Guardian : nel mondo le guerre civili sono in aumento.
E pensare che, da ventisei che erano nel 1992, avevano quasi toccato il fondo nel 2007: «soltanto» quattro. Pinker tiene aggiornati i 100 grafici della sua contabilità del male. È vero che quasi tutti mostrano una curva decrescente: meno omicidi, meno esecuzioni capitali. La striscia positiva dei mancati conflitti tra grandi potenze si è allungata fino a raggiungere i 62 anni suonati. Le guerre tra Stati? Dopo il 1945, tre all’anno; quasi nessuna dopo il 1989; zero dopo Iraq 2003.
C’è però una linea imbizzarrita che non segue l’andamento calante della violenza. È la linea più incerta, ma non meno letale, dei conflitti interni: il numero delle guerre civili nel 2014 è risalito a quota undici. Quasi tre volte la conta di sette anni prima. Dall’Africa all’Asia, dalla Nigeria di Boko Haram all’Afghanistan dei nosferatu talebani, passando per il catino infernale del Medio Oriente, sono nove le guerre civili che riversano profughi verso l’Europa. Sul pallottoliere di Pinker due guerre (in Ucraina) sono attribuibili alle mire di Vladimir Putin; ben otto sono appese alle trame ramificate dei gruppi jihadisti. Una, in Sud Sudan, affonda le radici in laiche lotte di potere che soffiano sulla cenere di mai sopite divisioni tribali.
Immaginate le guerre come crateri di violenza inestinguibile, che genera flussi di popolazioni in fuga. Le rotte dei rifugiati che dai vari punti caldi del mondo convergono naturalmente verso il bacino del Mediterraneo: molti di loro si inabissano, i più fortunati attraversano il mare in gommone, oppure superano come una gigan-tesca onda umana il contraf-forte dei Balcani.
È l’onda crescente delle guerre civili. Ci sono crateri (conflitti) che tornano in attività, come il conflitto in Sud Sudan, riesplodendo dopo pochi anni di sonno. Ci sono eruzioni di lunga data come quella che sgorga dal caos della Somalia, dove lo scontro tra clan e la mai domata rivolta degli estremisti di Al Shebab hanno confezionato il pacco dello Stato fallito per antonomasia. Ci sono Paesi che «studiano» da failed State a suon di morti, magari con l’intervento esterno dei vicini (sta accadendo nello Yemen).
«Tutte le guerre sono pericolose», scrive Patrick Coburn sull’ Independent seguendo il vasto delta dei conflitti in corso. In mancanza di precise linee del fronte, «le guerre civili — sottolinea Coburn — si accaniscono particolarmente sulle popolazioni. E le guerre religiose sono le peggiori di tutte». Troppo semplicistico ridurre a un denominatore (religioso) comune la sequenza dei conflitti-crateri che infuocano Libia, Siria, Iraq. Secondo lo studioso francese Jean-Pierre Filiu questi conflitti sono alimentati da un altro tipo di «faglia» comune, dove la lotta religiosa è corollario e strumento: sotto la violenza in superficie c’è «la sistematica guerra dei regimi arabi contro i loro popoli», incarnata e condotta dalla casta militar-affaristica di quelli che Filiu chiama «i neo-mamelucchi». E fa l’esempio del regime di Bashar Assad in Siria, che dopo aver fomentato il jihadismo islamico ora si erge a estremo baluardo contro di esso.
Conflitti che alimentano (o si incistano in) altri conflitti. È quanto sta avvenendo nel Sudest della Turchia, nel confronto sanguinario tra le truppe di Ankara e i ribelli curdi del Pkk.
I fronti si moltiplicano anziché ridursi, si intrecciano come filo spinato. È in mezzo a quel reticolato che cercano di passare e si ingrossano i rivoli dei profughi, le storie personali di famiglie e fuggiaschi solitari. Sono i disperati delle nove guerre, rappresentanti inconsapevoli di una strana Onu: le Nazioni Unite dalla guerra .