Corriere 12.9.15
La breccia nel fronte dei dissidenti
C’è chi non vuole arrivare alla battaglia finale
di Marco Galluzzo
ROMA Solo a chiedere ovviamente si crea una sorta di panico: «Per favore non scriva quello che le sto dicendo, non aiuta le trattative», dicono ad esempio coloro che nella maggioranza tengono i conti di un immaginario pallottoliere e incrociano le dita.
I conti sono quelli del Senato e della più o meno refrattaria pattuglia della minoranza dem: secondo Renzi la riforma passerà, al massimo «entro tre settimane» dovrà andare in Aula, alla fine l’auspicio di Palazzo Chigi e del gruppo dirigente del partito è che i 28 irriducibili dell’articolo 2 (sistema di elezione del nuovo Senato) diventino molti meno, 18, magari 15, chissà.
A reggere le fila delle trattative riservate sono in tanti, renziani, ex lettiani, governativi e non. Dall’altra parte ci sono quelli che vengono considerati «irriducibili», da Chiti a Gotor, da Corsini a Mucchetti, senatori da cui nessuno si attende una sorpresa, un’apertura alle ragioni del governo che sostiene l’impossibilità di rimettere in discussione l’elezione indiretta dei futuri senatori, già confermata da due votazioni.
Poi, anche se nessuno ha ancora fatto ufficialmente un passo indietro, ci sono coloro che vengono giudicati «aperturisti», passibili di riconsiderare nel merito l’impianto della riforma, di contemperare funzioni e garanzie della futura seconda Camera (ed eventuali modifiche sui punti, come offrono il ministro Boschi e il capo del governo) insieme al sistema elettivo come già emerso dai lavori parlamentari, lasciandolo dunque intatto.
E qui si entra in un’area che al momento è in movimento ufficioso ma non ufficiale, silenzioso, che solo a chiedere i nomi, visto che è in gioco la legislatura, si creano imbarazzi, reticenze, persino paure. Claudio Micheloni e Renato Turano, entrambi pd ed entrambi eletti all’estero, uno residente negli Stati Uniti e l’altro in Svizzera, vengono incasellati in una nicchia di senatori che alla fine potrebbero ritenere non così fondamentale una battaglia sul sistema elettivo.
E a loro vengono associati altri, come l’anziano filosofo Mario Tronti o Luigi Manconi, o ancora l’emiliano Claudio Broglia, sindaco del comune di Crevalcore, e ancora la piemontese Patrizia Manassero. Ovviamente al momento tutti negano tutto, soprattutto i diretti interessati: i precedenti richiamano episodi della stagione berlusconiana e cambi di casacca, anche se in questo caso gli argomenti di merito, i pareri dei costituzionalisti, l’autorevole opinione di Anna Finocchiaro — che non si stanca di ripetere che «il minimo è l’unità di partito» — lasciano ampi spazi di movimenti squisitamente politici.
Poi ci sarà, e sarà dirimente, dopo il lavoro della Commissione, al momento dell’arrivo in Aula del testo, la decisione di Pietro Grasso, il presidente del Senato: se la seconda carica dello Stato dovesse giudicare inemendabile l’articolo 2, visto che ci sono già state (tesi della maggioranza) due votazioni su un testo che avrebbe solo lievi differenze, ovviamente coloro che oggi vengono dati per «aperturisti» avrebbero una ragione in più per staccarsi dal dissenso della minoranza.
A meno che alla fine, come ancora auspicano in tanti, la frattura politica non si ricomponga, Bersani ci ripensi e l’unità del partito cui si è appellata la Finocchiaro dall’ Unità venga preservata. Troppo tardi? Vista la posta in gioco, i riflessi sul partito di un’eventuale spaccatura, sembra di no. «Il primo a sapere che una divisione sull’elettività del Senato non si spiega a nessuno è proprio Bersani», dicono a Palazzo Chigi.