venerdì 21 agosto 2015

Repubblica 5.8.15
L’intollerabile pretesa delle aziende di trasformare l’umore in redditività
Da Epicuro alla Costituzione, passando per Mozart
di Valerio Magrelli


Un’equazione “perversa” come quella tra felicità e produttività, un convincimento “malato” secondo cui il dipendente infelice equivarrebbe a un disfattista, una pratica “totalitaria” come quella che vede le aziende interferire nella privacy dei lavoratori, si possono comprendere solo in base a un’adeguata prospettiva storica.
Cerchiamo almeno di abbozzarla, dunque, procedendo con ordine.
Se esiste un tema tanto vasto da gettare qualsiasi studioso nello sconforto e quindi nell’infelicità, è appunto quello della felicità. Del resto perché sorprendersi, visto che questo concetto (o meglio, la sua appropriazione) costituisce la meta delle nostre vite?
Presente nelle dottrine morali dell’antichità col nome di “eudemonismo” (dal greco eudaimonìa , “felicità”), l’idea è trattata nella Lettera sulla felicità di Epicuro, per il quale uno stato simile si può raggiungere allontanando il dolore (sia fisico, sia psichico) grazie alla filosofia. Quanto alle grandi religioni, se per il cristianesimo e l’ebraismo la felicità assoluta coincide con la visione di Dio, per il buddismo la sofferenza è sopprimibile mediante la cessazione del desiderio.
Bisognerà però aspettare l’epoca moderna, perché tale nozione ricompaia in un contesto del tutto differente. Abbandonato l’ambito del soggetto, delle sue emozioni e delle sue aspirazioni, la felicità irrompe nel pensiero politico in una forma completamente nuova. Certo, si legge in un saggio di Luisa Muraro, la consapevolezza di un intricato nodo tra politica e felicità è cosa antica, che risale a Platone. Ma la stessa Muraro ribadisce l’esistenza di una frattura creatasi, tra Seicento e Settecento, con l’utilitarismo e soprattutto con l’empirismo inglese (si veda anche Salvatore Natoli, La felicità , Feltrinelli 2003).
Contemporaneo alla nascita della società industriale, questo movimento si collega all’edonismo dell’età classica, sostenendo che la felicità individuale tenderebbe per sua natura a irradiarsi nel sociale. Simile concezione diventerà ricorrente nel pensiero anglosassone e americano più che in quello europeo (dove andrà ad ogni modo segnalato il saggio che Ludovico Muratori scrisse nel 1749 con il titolo Della pubblica felicità ).
Da ciò deriva il fatto che la Costituzione degli Usa iscriva la ricerca della felicità tra i diritti naturali e inalienabili dell’essere umano.
E qui arriviamo al cuore del discorso. Anche la Costituzione italiana stabilisce il “pieno sviluppo della persona umana” (articolo 3), affermando che ciascuno può realizzare i propri desideri nel rispetto per la vita privata. Nel decretare il diritto all’identità personale (anch’esso sancito tra i diritti inviolabili della Costituzione, art. 2), viene così respinta ogni imposizione atta a trasferire sulla persona modelli prefabbricati, standardizzati, predisposti.
Come è possibile coniugare tutto ciò con le ultime pretese di molte aziende private? Come accettare un figura quale il Chief Happiness Officer?
Come tollerare la convinzione che la felicità dell’impiegato corrisponda a un capitale dell’azienda? Come ridurre il fine della nostra vita a indice di redditività?
Più che Montale e il suo celebre motto (“Vissi al cinque per cento”), dovremmo tornare a qualche anno fa, quando fu dimostrato che la produzione di latte nelle mucche che ascoltano musica sinfonica aumenta del 7,5 per cento.
Il medico e psichiatra Rolando Benenzon ha ricordato la battuta secondo cui i bovini amerebbero Mozart. Perché non farlo ascoltare anche ai lavoratori dipendenti?