«L’alessitimia è stata descritta per la prima volta nel 1972 dallo
psicologo Peter Emanuel Sifneos dell’allora Beth Israel Hospital di
Boston (oggi Beth Israel Deaconess Medical Center)»
Repubblica 24.8.15
Vivere senza emozioni
Si chiama alessitimia ed è il disturbo di chi non riesce a comunicare gli stati d’animo
In un caso su tre l’origine è genetica, ma spesso c’entrano l’educazione o traumi infantili
La ricerca è agli inizi e gli psicologi avvertono: guidare i più piccoli a descrivere cosa provano è già un aiuto
di Silvia Bencivelli
«DA BAMBINO disegnavo solo oggetti inanimati: case, piante, macchine, robot, astronavi, mappe. Le poche persone che facevo erano stilizzate. E soprattutto erano in bianco e nero». “D” racconta così la sua vita di bambino: una vita in cui c’erano i pennarelli, ma mancavano i colori. Poi è cresciuto e ha scelto di laurearsi in fisica: «Era lo studio rassicurante della natura e delle cose astratte». Ma durante l’università ha conosciuto la ragazza che sarebbe diventata sua moglie e le cose hanno cominciato a cambiare. «Quello che lei aveva iniziato a tirarmi fuori è esploso con la nascita della nostra bambina. Come potevo essere padre senza capire emozioni e sentimenti?». Di fronte a un figlio, la fisica e lo studio non erano più sufficienti: «Serviva altro. Così ho cominciato ad affrontare il più terribile dei miei mostri».
Il problema di “D” era quello che la psicologia definisce alessitimia, cioè la mancanza di parole per descrivere le emozioni. Cioè “D”, come tutti gli esseri umani coscienti, le emozioni le sentiva, ma non sapeva riconoscerle e descriverle né a se stesso né agli altri. Non sapeva dire «sono felice », «sono triste», «sono arrabbiato nero». Non sapeva mostrarlo né parlarne. E dei pennarelli colorati aveva una timorosa diffidenza. Ma l’altra cosa che non sapeva, era di non essere l’unico a vivere così.
L’alessitimia è stata descritta per la prima volta nel 1972 dallo psicologo Peter Emanuel Sifneos dell’allora Beth Israel Hospital di Boston (oggi Beth Israel Deaconess Medical Center). Nato nel 1920 sull’isola di Lesbo, Sifneos aveva studiato ad Atene e a Parigi e si era rifugiato negli Stati Uniti al momento dell’occupazione nazista della Francia. Nel corso della sua lunga carriera si era accorto che molti pazienti con disturbi psicosomatici (soprattutto intestinali e cardiovascolari) avevano difficoltà a esprimere le proprie esperienze emotive. Da allora l’alessitimia è stata via via sempre più riconosciuta come tratto della personalità e, oggi, anno dopo anno crescono le ricerche sul cervello tese a capire dove e come nasca il problema.
Perché non sapere usare i pennarelli colorati è un problema. Anche se, come tratto della personalità, non è una malattia di per sé e non fa star male di per sé, può esistere in concomitanza con alcune condizioni psichiatriche, ma non soltanto, e crea disturbi sociali, familiari e fisici. «L’alessitimia si definisce sulla base di tre fattori: — spiega David Vagni, ricercatore del Cnr e vicepresidente dell’associazione Spazio Asperger onlus, oggi al laboratorio di Neuropsicologia cognitiva dell’università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera — c’è la difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguerli dagli eventi fisici, c’è la difficoltà nel descrivere i propri sentimenti agli altri. E infine i processi immaginativi sono ridotti, cioè il pensiero è orientato più verso l’esterno che verso di sé».
Secondo studi recenti, tutto questo può essere detto chiaramente di una persona su dieci, mentre gli altri nove si posizionano lungo un continuum sfumato. Tra i più riconosciuti si trovano le persone con disturbi dello spettro autistico: l’85 per cento di chi ha una diagnosi di Asperger è alessitimico e il 50 per cento lo è in modo grave. Poi ci sono le persone con anoressia (63 per cento), bulimia (56 per cento), depressione (50 per cento), attacchi di panico (34 per cento). Molte persone che abusano di sostanze stupefacenti ( 50 per cento). Tante personalità borderline, narcisistiche, sociopatiche. C’è chi ha subito traumi emotivi o abusi. Chi è stato vittima di un trauma cranico grave. E perfino chi, all’apparenza normalissimo, è cresciuto in am- bienti soffocanti lo sviluppo di un sano linguaggio emotivo. Per questo nel 2001 lo psicologo americano Ronald Levant avanzò l’ipotesi di una «alessitimia normativa maschile », cioè tipica degli uomini educati secondo un’idea rigida e antica dei ruoli sessuali, e col tarlo tutto maschile per il quale mettere in mostra le proprie emozioni non sta bene.
Perché, al di là dei fattori genetici (che probabilmente rappresentano un terzo del problema) e di crescita, una buona metà della storia dipende dall’ambiente: «E ovviamente tutte queste ragioni sono intrecciate tra loro, quasi sempre», precisa Vagni.
I bambini come “D” hanno bisogno di essere guidati a imparare che cosa sono le emozioni: «In primo luogo devono vederle nelle espressioni degli altri e riconoscerle su di sé, associandole alle giuste modificazioni fisiche (rossore, brividi, tensione, aumento del battito cardiaco…). E poi devono avere accanto qualcuno che utilizzi in maniera appropriata le parole per descriverle ». Questo può avvenire spontaneamente in condizioni favorevoli, o con diversi gradi di difficoltà. Ma per i bambini autistici presenta un ostacolo in più: «Spesso le emozioni di un bambino autistico sono opposte a quelle degli altri (si spaventano durante una festa in cui tutti sono allegri, per esempio). Perciò possono sentir usare la parola “felicità” e vedere intorno facce effettivamente felici, mentre loro sono preda del terrore».
Che cosa succede nel cervello di un alessitimico stiamo cominciando a capirlo ora. «Si è visto che spesso c’è una minore reattività, o una minore connessione, nelle regioni associate alle emozioni, cioè delle aree limbiche e della corteccia prefrontale. Mentre nelle reazioni emotive primitive, come la risposta al dolore, si può avere un’alterazione dell’attività di zone capaci di amplificare le sensazioni fisiche », spiega ancora Vagni. E forse è anche qui il legame coi disturbi psicosomatici, evidenziato con sempre maggiore sicurezza da Sifneos in poi. «È stata anche riconosciuta una ridotta comunicazione tra i due emisferi, forse alla base della difficoltà di trasformare in parole (prodotte dall’emisfero sinistro) le emozioni (elaborate dall’emisfero destro)».
La ricerca è ancora all’inizio. Ma aver riconosciuto il problema, e sapere che esistono possibilità di intervento, può cambiare la vita di molti: «Dare un nome alle emozioni significa portarle sotto al controllo del linguaggio, ed esplicitarle significa costruire un’interazione sociale sana basata sulla capacità, tutta umana, di mettersi nei panni dell’altro, capirlo, e regolarci di conseguenza quando vogliamo avere a che fare con lui», conclude David Vagni.
E “D”, che fine ha fatto? Oggi di bambini ne ha due e con loro ha imparato a usare i pennarelli colorati. Dopo la laurea in Fisica ne ha presa una in psicologia. Oggi si occupa proprio di alessitimia, e ha appena finito di parlare di sé.
La nascita di un figlio può accendere una luce e far capire di avere un problema relazionale L’ipotesi: colpiti di più i maschi cresciuti pensando che un uomo non debba piangere “Da bambino disegnavo solo cose inanimate: case, robot... E sempre in bianco e nero”