lunedì 31 agosto 2015

La Stampa 31.8.15
Hitler torna dall’amato Wagner
Bayreuth ricorda la sua passione
Al museo foto e testimonianze delle visite del dittatore: una verità rimossa per anni
di Alberto Mattioli


Hitler torna a casa Wagner, a Bayreuth. Finalmente il museo di villa Wahnfried, la dimora costruita da Richard per sé e i suoi successori (ovviamente con i soldi di un altro, nel caso Luigi II di Baviera) prende atto che dagli Anni Venti in poi Bayreuth fu ampiamente frequentata, foraggiata e usata dal futuro Cancelliere e dai suoi amici.
E insomma che Wagneropoli fu una capitale del Terzo Reich. Di certo, quella culturale.

Il nipote di Richard, Wolfgang, smise di abitare Wahnfried e la trasformò in museo nel 1976, in occasione del centenario del primo festival, quando la nuova produzione dell’«Anello del Nibelungo» di Patrice Chéreau cambiò per sempre il modo di mettere in scena Wagner, anzi il teatro musicale in generale. Alla rivoluzione scenica non corrispose quella museale: le sale non erano solo un po’ polverose, ma anche singolarmente reticenti sull’ospite imbarazzante accolto, coccolato e forse amato dalla padrona ci casa, Winifred Wagner, la moglie inglese e nazistissima dell’unico maschio di Richard, Siegfried, morto nel ’30. Vado a memoria, ma di Hitler mi sembra che non fosse ostensa nemmeno una foto. C’era un Goebbles alla Festspielhaus e tutto finiva lì.
Sedie scomodissime
Ora Wahnfried, aperta dopo lunghi lavori conclusi in ritardo (come le stagioni, nemmeno i tedeschi sono più quelli di una volta) rimane devotamente consacrata al culto di Richard, che del resto è sepolto lì fuori insieme a Cosima e a un po’ dei suoi cani, beninteso i quadrupedi, non quelli ascoltati negli ultimi Festival. Si vedono o si rivedono le reliquie amate, i libri della biblioteca (con tutti i classici, e perfino Gioberti), le partiture, i vestiti (Wagner, genio dell’immagine, iniziò prestissimo a vestirsi da Wagner, con icone immutabili come il cappellone di velluto nero), il sofà sul quale morì (a palazzo Vendramin, attuale casinò di Venezia), molto bric-à-brac del miglior cattivo gusto ottocentesco e perfino una sedia originaria della Festspielhaus che, con la sua paglia di Vienna, dà l’idea di essere meno scomoda di quelle attuali, rigorosamente senza imbottitura, senza braccioli e con lo schienale a 90 gradi, così nessuno si abbiocca dopo che le maschere hanno chiuso a chiave le porte. Anche qui, qualche presa di distanza c’è. In sala da pranzo, si ammette che il Maestro ogni tanto alzava un po’ il gomito e accanto al frontespizio del famigerato «Giudaismo nella musica» una didascalia informa che si tratta di «un diffamatorio pamphlet antisemita».
Repliche sotto le bombe
Però ci sono anche due nuovi spazi. Nel sotterraneo, si racconta la storia dei festival, con le maquettes delle scene e i costumi. E poi è aperta per la prima volta al pubblico anche la Siegfried Haus, la casa di Siegfried, che durante gli anni tremendi era nota come Führerbau, perché lì veniva ospitato Hitler (ma anche Richard Strauss o Toscanini, quando dirigevano a Bayreuth). E qui con l’ausilio di fotografie e video si dicono un bel po’ di cose, sui rapporti fra la Famiglia e «Onkel Wolf», zio lupo, come lo chiamavano Wolfgang e Wieland, i due maschi di Siegfried e Winifred: dal «Mein Kampf» scritto su carta intestata di Wahnfried alle ripetute visite del Cancelliere, da Winifred con la foto di Hitler sulla scrivania ai suoi due figli che sfilano in camicia bruna. Si vede Hitler affacciarsi da una finestra della Festspielhaus davanti a una folla di spettatori con il braccio levato e i militari feriti o invalidi precettati ai festival «di guerra», con le rappresentazioni anticipate per non essere interrotte dai bombardamenti.
Famiglia di nazisti
Nella stanza che dà sul giardino, ancora nel ’75, Winifred, processata e blandamente condannata dopo la guerra, ripetè per cinque ore a favor di telecamera che «aver conosciuto il Führer era stata un’esperienza che non avrei mai voluto perdere». La famiglia reagì malissimo, ma in fondo faceva comodo addossare tutte le colpe alla sola Winifred, mentre nazisti più o meno lo erano stati tutti, tranne una figlia, Friedelind, che fuggì in America anche perché si era innamorata di Toscanini.
Insomma, nel complesso una bella operazione verità. Del resto, l’ultimo «Parsifal» visto a Bayreuth, con la genialissima regia di Stephan Herheim, raccontava l’opera appunto come un’autobiografia della Nazione, finalmente redenta dalla democrazia dopo l’autoritarismo del Secondo Reich e i crimini del Terzo. Il passato passa soltanto se lo si conosce bene. E tutto.