domenica 30 agosto 2015

La Stampa 30.8.15
Quella strana nostalgia del ventennio
di Marcello Sorgi


La polemica sulla «paralisi» provocata dal ventennio di contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo è sorprendente e indicativa al contempo. Renzi naturalmente l’ha sollevata ad arte, sapendo che l’estate, e in particolare la settimana delle feste di partito, che contrassegna la fine delle vacanze e la vigilia della ripresa politica, è la stagione più adatta ad accendere fuochi d’artificio. Ma le reazioni che ha provocato qualcosa dicono, anzi più di qualcosa.
Colpiscono soprattutto le prese di posizione della minoranza del Pd e l’assenza o quasi di reazioni a destra. Nel ventennio fatidico D’Alema (che con Berlusconi provò a fare le riforme nella famosa Bicamerale), Veltroni (che in questo caso ha taciuto), Bersani e gli altri leader della sinistra ebbero atteggiamenti diversi e in qualche caso contrapposti sul Cavaliere, anche se poi, verso la fine, tutti si uniformarono al verbo dell’antiberlusconismo e qualcuno arrivò a paragonare il ventennio più recente addirittura con quello del fascismo mussoliniano. Ci si sarebbe aspettata, adesso, a distanza, un’analisi più critica, se non per consentire con Renzi, almeno per illustrare luci e ombre di molte scelte sbagliate. Invece non è così.
Basterebbe riconoscere, ad esempio, che Berlusconi fu inizialmente sottovalutato, nel 1994, al momento della «discesa in campo», tanto che Popolari e Ds, cioè le due maggiori componenti dell’attuale Pd, si presentarono separati e presero una batosta, quella sì, paragonabile al ’48 del Fronte popolare, malgrado la strategia fosse opposta.
Poi l’ex Cav. fu trattato come un usurpatore, una specie di golpista, anche se aveva vinto regolarmente le elezioni; e il presidente Scalfaro, all’atto della formazione del suo primo governo, gli chiese di sottoscrivere una pubblica adesione ai valori della democrazia e della Costituzione, sebbene Berlusconi, che non era ancora entrato in conflitto con la magistratura, non avesse mai dato la sensazione di volersene discostare.
Che il vincitore avesse più di un fianco debole e offrisse molti argomenti ai suoi oppositori, a partire dall’uso disinvolto delle sue televisioni e dal rifiuto di risolvere il problema del conflitto di interesse con le sue aziende, non ci sono dubbi. Ma fu la nascita dell’antiberlusconismo, piuttosto che l’avvento del berlusconismo, a consolidare la sua avventura politica. Berlusconi poté presentarsi sei volte, dicasi sei, alle elezioni da candidato premier, come perseguitato dai comunisti, e vincere (più o meno bene) o perdere (sempre di misura), grazie al fatto di aver contro uno schieramento che minacciava di rompere le ossa, non solo a lui, ma a tutti i moderati che temevano l’avvento di un governo di centrosinistra. Il quale centrosinistra, uscito vittorioso con Prodi nel 1996 e nel 2006, se avesse mantenuto la promessa di saper governare, a dispetto di un avversario che manifestamente non era in grado di farlo, avrebbe forse posto le premesse per una più duratura esperienza alla guida del Paese. Non fu così: i governi dell’Ulivo, pur mediamente composti da un personale politico più decente di quello berlusconiano, si distinsero per rissosità, inconcludenza, perdite di tempo e divisioni ideologiche. Tal che, con la sola eccezione dell’ingresso nell’euro – realizzato da Prodi e Ciampi nel ’98, superando le diffidenze già allora presenti tra i partners dell’Unione – gli elettori si ritrovarono, per vent’anni, con un candidato che pretendeva di essere «l’uomo del fare», ma al dunque combinava solo guai, e un altro che prometteva di rimediare ai disastri del suo avversario, senza mai riuscirci.
Ancora, occorrerebbe ammettere che, oltre ad aiutare Berlusconi inizialmente a prosperare, e in un secondo momento a sopravvivere, l’antiberlusconismo ha fatto anche male al centrosinistra, ne ha rallentato l’evoluzione verso un’autentica cultura di governo, lo ha costretto a rinviare riforme importanti (come quelle che Renzi sta cercando di realizzare), perché ha messo tutto in secondo piano – rispetto all’obiettivo principale di abbattere Berlusconi – e ogni tentativo di interlocuzione, trattativa, compromesso, come quelli che avvengono normalmente nei paesi democratici tra parti opposte, per vent’anni è stato considerato alla stregua di tradimento della religione antiberlusconiana, abbandono del campo della nuova resistenza, cedimento al fascismo incalzante. Pari risultati – a parte il clamoroso ribaltone del ’94 di Bossi (poi tornato stabilmente all’ovile di Arcore) – hanno avuto i tentativi di agganciare pezzi della coalizione berlusconiana, che a un certo punto, agli occhi della sinistra, trasformarono paradossalmente in stimati alleati e «compagni» Casini e Fini, cioè un dignitoso leader della destra democristiana che non aveva mai abiurato le sue origini, e l’erede di Almirante, autore di un audace tentativo di rinnovamento del post-fascismo, ben radicato tuttavia nel suo campo.
Questa è stata la vicenda del berlusconismo e dell’antiberlusconismo. Se si trattasse di uno o due secoli fa, ci sarebbe materia per approfondimenti scientifici e discussioni teoriche. Ma il ricordo è vivo, è storia di questi giorni, in gran parte dipanatasi negli Anni Duemila, e conclusasi, come si sa, nel 2011 e per nostra fortuna, non a colpi di fucile e con l’insurrezione armata, ma con Berlusconi e Bersani che sostenevano insieme Monti, chiamato a risollevare l’Italia dall’abisso in cui vent’anni di guerra civile parolaia e governi inadeguati l’avevano precipitata.
Infine c’è un’altra ragione per cui la difesa dell’antiberlusconismo, così come la nostalgia del berlusconismo, sono ormai diventate inutili. Di quel ventennio, di quel mondo, di quel clima, infatti, non è rimasto nulla o quasi. La Seconda Repubblica si è esaurita, anche più repentinamente della Prima. L’Italia non ha più un sistema bipolare. Pensare che alle prossime elezioni gli elettori, quei pochi che ancora ci vanno, si ritrovino a scegliere tra destra e sinistra è fuori dalla realtà. Significa ignorare il frutto forse più velenoso dell’epoca appena conclusa: quel terzo polo dell’antipolitica in cui Grillo da una parte, e Salvini dall’altra, ma presto, chi lo sa, forse alleati, si preparano a dare l’assalto al Palazzo. A quel poco che ne rimane.