venerdì 28 agosto 2015

La Stampa 28.8.15
Vivi e morti involucri vuoti
di Marco Belpoliti


Che cos’è un corpo? L’unica cosa che abbiamo. Da quando l’anima non è più una realtà presente – chi usa ancora la frase: esalare l’anima? –, da quando non è più neppure pneuma, soffio, ma solo materia, se non proprio materiale, il corpo è tutto quello che possediamo. Per questo lo curiamo in tutti i modi, cerchiamo di tenerlo in forma, efficiente, elastico, giovane.
Il corpo è la vera moneta di scambio nella vita contemporanea. Il capitale umano è prima di tutto composto di corpi. Ma quando i corpi sono corpi morti, come accade sul fondo dell’imbarcazione che trasporta i migranti verso le rive dell’Europa, o quando sono stipati dentro un camion con cella frigorifera sulla cui fiancata troneggia l’immagine di una fetta d’insaccato di pollo, allora cosa sono i corpi umani? Involucri vuoti, come le spoglie degli insetti.
Primo Levi in una pagina memorabile di Se questo è un uomo parla di un corpo che non c’è più, il corpo di un deportato, un musulmano, Null Achtzehn, colui che non è un uomo, ma sta per diventare un corpo morto, puro residuo da eliminare: «Nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva degli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote». Il musulmano nel Lager è destinato entro breve tempo alla camera a gas e quindi al crematorio: una scoria.
Null Achtzehn, Zero Diciotto, dalle ultime cifre del numero di matricola, è corpo vuoto a un passo dalla morte, anzi con la morte addosso. Le notizie che arrivano dalle nostre frontiere d’acqua, dai barconi che anelano alle rive della salvezza con i cadaveri pigiati nella stiva, o da quelle di terra, con le immagini del camion abbandonato sul bordo dell’autostrada e i corpi morti all’interno, fanno venire in mente le parole di Levi.
Cosa significa per i vivi viaggiare dentro quella bara galleggiante insieme ai cadaveri dei loro compagni, parenti, amici o conoscenti? Levi alla fine del suo primo libro, in quella sorta di diario di sopravvivenza che è Storia di dieci giorni, ultimo capitolo ma scritto per primo, subito dopo il ritorno, spiega con frasi essenziali e precise cosa significhi per i vivi stare accanto ai morti. Non si può che trascriverle: «Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di umanità era sparita intorno a noi e dentro di noi (…). È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere». Poco più oltre usa la parola anima, al plurale: «Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo». Non possiamo continuare a ignorare questa tragedia. Mai più Lager, mai più campi di sterminio! Ce lo siamo giurati, l’hanno ripetuto i leader europei a settant’anni dalla fine della guerra. Eppure ancora accade. Basta.