martedì 25 agosto 2015

La Stampa 25.8.15
Se il Dragone si scopre vulnerabile
di Richard N. Haass*


Agli over 60 che seguono con attenzione le questioni internazionali, l’espressione «le due Cine» ricorderà la disputa per il riconoscimento diplomatico dopo il 1949, portata avanti dalla Cina continentale («Rossa») e Taiwan, o, ufficialmente, dalla Repubblica Popolare Cinese e dalla Repubblica di Cina. All’inizio degli Anni 70, praticamente ogni Paese si adeguò alla richiesta della Repubblica Popolare di essere l’unico governo a essere riconosciuto come legittimo sovrano della Cina.
Il continente era semplicemente troppo grande e troppo importante dal punto di vista economico e strategico per rimanere isolato.
Attualmente, sta emergendo una nuova questione delle «due Cine», ma è molto diversa: se la Cina sia da intendere come Paese forte, con un futuro promettente nonostante alcune difficoltà nel breve termine, o piuttosto come un Paese che sta affrontando gravi problemi strutturali e con una prospettiva d’incertezza a lungo termine. In breve, si possono intravedere due Cine molto differenti. Ma quale delle due prevarrà?
Fino a poco tempo fa, non vi era alcun motivo di porsi questa domanda. L’economia della Cina stava crescendo con un incredibile tasso annuale medio di oltre 10% da più di tre decenni. La Cina aveva sorpassato il Giappone diventando la seconda economia più grande al mondo. Centinaia di milioni di cinesi entrarono a far parte del ceto medio. Il modello dell’efficienza autoritaria della Cina sembrò interessante per molti altri Paesi in via di sviluppo, soprattutto dopo la crisi finanziaria globale del 2008, che ebbe inizio proprio negli Stati Uniti e che quindi screditò il capitalismo liberale in stile americano. Tuttavia, la questione del futuro della Cina è diventata inevitabile. Ufficialmente, la crescita economica è rallentata raggiungendo quasi il 7%; ma si ritiene che la cifra reale sia al di sotto del 5%. Il rallentamento non dovrebbe sorprendere: tutte le economie in via di sviluppo vivono scenari simili man mano che crescono e diventano più solide. Nonostante ciò, la rapidità e il grado di cambiamento hanno colto impreparate le autorità, le quali hanno espresso ufficialmente il timore che la crescita non raggiungerà un livello tale da garantire al Paese il processo di modernizzazione previsto.
L’allarme lanciato dal governo per il rallentamento economico più forte del previsto si è riflesso nelle drastiche misure prese a luglio di congelamento dei mercati azionari nel bel mezzo di una drammatica fase di correzione dei prezzi. A questa mossa è seguita quella della svalutazione a sorpresa del renminbi di questo mese, che suggerisce che lo scostamento dal modello di crescita guidata dalle esportazioni non sta funzionando come si sperava. Nel frattempo la campagna anti-corruzione condotta dal presidente Xi Jinping appare sempre di più come una strategia di consolidamento del potere, più che uno sforzo per riformare lo Stato cinese a beneficio della sua economia e della sua società. La corruzione è un fenomeno molto diffuso, e la campagna di Xi rimane ampiamente popolare. Tuttavia l’ondata dei procedimenti giudiziari che il presidente ha scatenato sta dissuadendo i funzionari cinesi dal prendere decisioni, per paura di dover far fronte a denuncie a loro carico in futuro. Come conseguenza di questi sviluppi, si sente molto meno parlare del modello cinese e molto di più della realtà cinese. A parte la crescita in calo, questa realtà include gravi danni ambientali, come risultato del processo di rapida industrializzazione a base di carbone durato per decenni. Secondo alcune stime, ogni anno l’inquinamento atmosferico causa la morte di 1,6 milioni di cinesi.
L’invecchiamento demografico cinese, conseguenza involontaria della drastica politica del figlio unico, rappresenta un’altra minaccia al benessere a lungo termine. Con l’indice di dipendenza – la proporzione tra bambini e pensionati e popolazione maschile e femminile in età lavorativa – destinato ad aumentare rapidamente nei prossimi anni, la crescita economica rimarrà contenuta, mentre i costi per l’assistenza sanitaria e per le pensioni eserciteranno una pressione sempre crescente sui bilanci di governo.
Ciò che appare ovvio è che i leader cinesi vogliono la crescita economica che il capitalismo produce, ma senza le flessioni che ne conseguono. Vogliono l’innovazione che una società aperta genera, senza la libertà intellettuale che la caratterizza. Non si può andare avanti così. Alcuni osservatori, timorosi di una Cina in ascesa, potranno tirare un sospiro di sollievo di fronte alle attuali difficoltà. Tuttavia potrebbe trattarsi solo di una reazione poco lungimirante. Una Cina a crescita rallentata potrebbe rappresentare una minaccia per la ripresa economica mondiale. Sarebbe un partner meno incline a raccogliere le sfide globali come quella del cambiamento climatico. E, cosa ancor più pericolosa, una Cina in difficoltà potrebbe cedere alle lusinghe dell’avventurismo estero per placare gli animi di un popolo frustrato dal rallentamento della crescita economica e dall’assenza di libertà politica. Infatti, ci sono già i segnali che le autorità stanno proprio facendo questo nel Mar Cinese Meridionale. Il nazionalismo potrebbe diventare il sostegno di un partito al potere che non è più in grado di puntare al miglioramento del tenore di vita.
Gli Usa e gli altri Paesi dovranno combattere con forza la possibilità che la Cina possa cedere a queste tentazioni. Tuttavia questi Paesi potrebbero anche saggiamente far presente alla Cina che potrebbe avere il suo posto tra i leader mondiali con il benestare di tutti se agisse con responsabilità e seguisse le regole valide per tutti. Ma la scelta più importante sulle misure politiche sarà quella che dovrà fare la Cina. Il governo dovrà trovare il giusto equilibrio tra gli interessi del governo e i diritti individuali, tra la crescita economica e la gestione ambientale, tra il ruolo dei mercati e quello dello Stato. Le scelte che la Cina dovrà affrontare sono tanto ardue quanto inevitabili. Non si possono escludere situazioni di forti tensioni sociali. L’unica certezza è che i prossimi tre decenni non rifletteranno gli ultimi tre.
*Presidente del Council on Foreign Relations
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