venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 9.8.15
De rerum natura
Lucrezio vecchio e nuovo
Nel Rinascimento la caccia ai manoscritti classici portò alla riscoperta di uno dei testi più amati e odiati dell’antichità
di Massimo Bucciantini


Se tu credessi nel contagio delle idee eretiche, sceglieresti di studiarle? Se ti dicessero che la lettura di certi libri ti spedirebbe diritto all’inferno, li leggeresti? E tu, editore, li stamperesti, mettendo il tuo nome in bella vista sul frontespizio, e li distribuiresti in migliaia di copie? E li conserveresti, pur sapendo che le opinioni lì contenute sono piene di errori?
Inizia così, con una raffica di domande, questo prezioso e dottissimo libro sulla diffusione e la circolazione del De rerum natura nel Rinascimento. O meglio: sui diversi modi in cui venne letto, prima in forma manoscritta e poi a stampa, dal secondo decennio del Quattrocento alla fine del Cinquecento.
La genesi di questa storia è stata raccontata più volte. L’ultimo in ordine di tempo a farlo è stato Stephen Greenblatt. E lo ha fatto da par suo in un bel libro: Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea (Rizzoli).
È l’inverno del 1417. E il luogo in cui ci troviamo è con ogni probabilità l’abbazia benedettina di Fulda, nella Germania meridionale, dove l’umanista e segretario apostolico Poggio Bracciolini, tra una seduta e l’altra del concilio di Costanza, è a caccia di manoscritti da copiare e spedire a Firenze. Come scrive Greenblatt, non sappiamo come Poggio reagì di fronte all’inaspettata scoperta del De rerum natura. È assai verosimile che già fosse a conoscenza, attraverso le testimonianze di Ovidio e di Cicerone, del nome del suo autore. Certamente «deve aver dato un’occhiata a quei versi mentre impediva al poema di sprofondare nell’oblio», e non può non essersi accorto che «quasi tutti i principi fondamentali dell’opera erano inammissibili per la rigida ortodossia cristiana, ma la bellezza della poesia era altrettanto irresistibile e seducente».
Grazie a questa scoperta, uno dei testi più amati e più odiati dell’antichità tornò in circolazione. Dalla copia inviata da Costanza a Firenze, poi andata perduta, Niccolò Niccoli ne fece un’elegante trascrizione (che si trova alla Biblioteca Medicea Laurenziana), che a sua volta dette vita a decine di altri esemplari manoscritti, i quali servirono come fonti delle prime edizioni a stampa.
È a questo punto che interviene Ada Palmer, e grazie al suo libro l’intera vicenda acquista un valore particolare. La peculiarità e la potenza della sua ricerca stanno infatti nell’aver risposto alle domande iniziali attraverso un eccellente lavoro filologico che andrebbe esteso a molti testi greci, arabi e latini tornati alla luce in quel giro di anni. Ma che raramente accade. Perché si tratta di lavori lunghi e faticosi, che hanno bisogno – per essere condotti a termine – di spalle forti, ovvero di adeguati finanziamenti, e al tempo stesso – per non cadere nel vortice di un’erudizione fine a se stessa – di una matura consapevolezza storiografica.
Ada Palmer ha prima censito e poi collezionato e studiato le cinquantaquattro copie manoscritte del De rerum natura sopravvissute e presenti in numerose biblioteche europee (in primo luogo italiane) e nordamericane. E poi ha compiuto un lavoro analogo su centosettantadue copie di edizioni a stampa: dall’editio princeps stampata a Brescia da Tommaso Ferrando negli anni 1471-73 all’edizione di Leida del 1597, privilegiando soprattutto le copie delle quattro edizioni quattrocentesche, e delle altrettante edizioni cinquecentesche fino all’aldina del 1515 (risale all’anno seguente il divieto del Sinodo di Firenze di leggere il De rerum natura nelle università).
«Opinio non christiana», così riporta la copia manoscritta conservata alla Bodleian Library di Oxford. L’annotazione è nitida, scritta in rosso sul margine destro corrispondente alla linea 417 del Libro III, in cui Lucrezio affronta il tema della mortalità dell’anima e dunque della sua inseparabilità dal corpo. Questa copia, databile post 1458, deriva sia per il testo sia per alcuni marginalia, come quello appena citato, dalla copia posseduta da Pomponio Leto (discepolo a Roma di Lorenzo Valla e suo successore alla Sapienza) che si trova alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Ebbene, grazie all’indagine della Palmer si viene a sapere che soltanto quattro dei manoscritti censiti riportano questo tipo di annotazione. Negli altri, sull’argomento non c’è traccia di commento, di nessun tipo. Come se uno degli aspetti più radicalmente anticristiani del poema lucreziano fosse passato del tutto inosservato all’attenzione dei suoi primi lettori cristiani. Un dato, per noi lettori moderni, a dir poco sorprendente.
Com’è potuto accadere una simile “dimenticanza”? In che modo è stato letto il De rerum natura dai primi lettori umanisti? La risposta non lascia dubbi in proposito: pochi furono coloro che lo lessero prestando attenzione sia allo stile che al contenuto. Certo, ci fu anche chi lo lesse ben consapevole dell’eterodossia che quei magnifici versi sprigionavano (è il caso di Marcello Adriani, Pomponio Leto, Machiavelli, oppure di Marsilio Ficino, che ne restò così atterrito da bruciare un suo commento giovanile). Ma la stragrande maggioranza dei lettori dedicò ogni energia a un altro scopo: quello di salvare il testo, per renderlo fruibile e metterlo subito in circolazione. E non si trattava solo di un obiettivo legato al recupero di un grande testo appartenente alla tradizione classica. La posta in gioco non era solo il salvataggio di quella singola opera, bensì «la riscoperta di una perduta età dell’oro, e in special modo del suo linguaggio e delle sue inestimabili biblioteche». Leggere i classici diventava così uno dei presupposti fondamentali per contrastare il decadimento morale dell’Italia e dell’Europa. «Il desiderio di ricostruire le grandi biblioteche appartenute agli antichi romani e andate perdute fu così impellente che gli umanisti si sentirono in obbligo di leggere e riportare alla luce qualunque classico al di là del suo contenuto».
Ovviamente la filosofia lucreziana della natura, l’immagine di un mondo composto da infiniti atomi che si muovono in un vuoto infinito e che non sono il prodotto di nessun disegno divino, poteva pienamente essere compresa già nel 1417. Ma l’ambizioso progetto di recupero del mondo classico nella sua totalità portò i primi anonimi lettori di Lucrezio a privilegiare gli aspetti di comunanza del suo pensiero con le altre scuole filosofiche piuttosto che a enfatizzare gli elementi di distinzione. Così come l’insistenza sulla sua eloquenza e sulla sua eleganza diventò il canale privilegiato di presentazione delle prime biografie del poeta-filosofo.
L’immagine di Lucrezio cambiò radicalmente intorno alla metà del Cinquecento, o per essere più precisi a partire dal 1563. Quell’anno uscì a Parigi un’edizione del De rerum natura mai vista prima. Un volume in quarto di oltre 500 pagine, curato e riccamente annotato da Denys Lambin, professore di letteratura latina e di lingua greca al Collège Royal. Il Lucrezio forgiato da Lambin non assomigliava più a quello dell’età dei pionieri, dei Pomponio Leto, dei Marcello Adriani, e dei tanti anonimi copisti e commentatori di fine Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento. L’«operazione Lucrezio» era ormai conclusa. La battaglia per il suo recupero e la sua diffusione era stata vinta. Adesso iniziava un’altra fase. Il commento dettagliatissimo del filologo francese, che non trascurò nessun aspetto linguistico, filosofico e scientifico del poema, avrebbe di lì a poco prodotto un nuovo tipo di lettore. E uno dei lettori più appassionati del “nuovo” Lucrezio fu Montaigne. La sua copia personale fittamente annotata in francese e in latino, con tanto di fogli volanti pieni di appunti, scoperta e pubblicata da Michael Screech nel 1998, resta una delle prime e più alte testimonianze del valore poetico e filosofico di quel testo.
Ada Palmer, Reading Lucretius in the Renaissance , Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, pagg. XIV, 372, € 36,00 (I Tatti Studies in Italian Renaissance History)