venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 9.8.15
L’eredità greca in tre puntate / 2
Inventori della tragedia
Gli ateniesi misero in scena i limiti della conoscenza, l’inevitabilità del fallimento, la fragilità della felicità
di Glenn Most


L’antica democrazia ateniese, a differenza dei sistemi moderni europei, era pienamente partecipativa: l’intera popolazione si incontrava per discutere e decidere questioni; non c’erano partiti politici a rappresentare i cittadini, ma solo alleanze temporanee e raggruppamenti informali; non c’erano politici di professione, ma solo individui che, oltre a svolgere altre attività, erano più o meno impegnati nella vita pubblica della città; le varie funzioni venivano espletate a rotazione dai membri delle diverse frazioni della popolazione con diritto di voto. La partecipazione agli incontri della principale assemblea democratica, l’ekklesia (da ekkaleô: gli uomini venivano chiamati a raccolta fuori dalle loro case), era formalmente un dovere civico obbligatorio e dunque spesso coinvolgeva migliaia di partecipanti. Dove potevano incontrarsi? Ad un certo punto il mercato fu evidentemente considerato troppo piccolo, troppo affollato e troppo informale, e così le assemblee politiche furono trasferite nell’edificio più grande disponibile, che era il Teatro di Dioniso. Questo era uno spazio aperto ma circoscritto destinato a ospitare un’altra importante innovazione ateniese: la tragedia. All’origine, era l’agorà probabilmente il luogo dove gli uomini ateniesi mettevano in scena drammi, oltre a commerciare e a fare politica. Ma dall’inizio del V° secolo AC, un declivio naturale sotto l’Acropoli di Atene, e poi un teatro costruito lì, avevano cominciato a essere usati per allestire spettacoli ogni anno durante formali festività tenute per celebrare il culto di Dioniso, il dio dell’alcol e del teatro. Il vino offusca la realtà e alimenta la giocosità e l’emotività, e così facevano le tragedie (e in seguito le commedie e i drammi satireschi) offerte a Dioniso, uno dei cui nomi di culto era appunto Lyaios, “colui che libera”. Le origini della tragedia erano oscure già per gli antichi Greci e non lo sono meno per noi; ma per quanto la forma abbia avuto radici lontane nei rituali religiosi primitivi di sacrificio e di catarsi, già i più antichi esemplari che ci restano sono una fioritura pienamente sviluppata di riflessioni politiche, poetiche, religiose e filosofiche. Degli dei e degli eroi della leggenda si era sempre parlato e cantato in terza persona nei poemi e nei racconti orali, e la loro immagine esteriore era stata immortalata in statue e dipinti. Ma ora, improvvisamente, quelle stesse figure apparivano materializzate di fronte agli occhi attoniti dei cittadini, non come il soggetto verbale della narrazione distanziante di un poeta che gli ascoltatori dovevano immaginare, ma visibilmente presenti, fisicamente vivi, che compivano le loro famose gesta e che spiegavano anche in prima persona perché le avevano compiute e dimostravano visibilmente la loro grandezza e le loro sofferenze. Quello che migliaia di spettatori vedevano era in realtà un manipolo di persone con indosso maschere e costumi che fingevano di essere dei ed eroi; ma quello che credevano di vedere erano quegli stessi dei ed eroi, che agivano e soffrivano, vivevano e morivano davanti ai loro occhi. Gli dei scendevano in terra e gli antichi eroi tornavano nel mondo presente; e il risultato non fu soltanto una maggiore plausibilità e un maggiore impatto emotivo per le storie leggendarie, ma anche una elevazione del presente immediato al più alto livello di serietà. Perché i personaggi della tragedia declamavano una versione del linguaggio ordinario degli uomini ateniesi e dovevano rendersi credibili e compresi non soltanto l’uno dall’altro, ma anche dal pubblico: dei ed eroi condividevano le stesse ansie e speranze che muovevano ogni cittadino, ma incrementate, magnificate e rese assai più potenti emotivamente dalla dizione poetica, dalla musica, dalla messa in scena. La tragedia ateniese fu un forum privilegiato per riflettere pubblicamente sul posto degli esseri umani nel mondo e sulle aspirazioni e soprattutto sui limiti della conoscenza e del potere umani. Temi tipici della tragedia erano la morte violenta del re arrogante e apparentemente onnipotente; la dignità offesa delle vittime (specialmente donne) e la loro vendetta assetata di sangue; l’impossibilità di riconciliare quello che chiede la città con quello che chiede la famiglia; le imprevedibili, spesso catastrofiche conseguenze di ogni azione, anche della meglio intenzionata. Gli spettatori, diversamente dai personaggi, sapevano come sarebbero andate a finire le storie, perché esse appartenevano al loro passato ma al futuro dei personaggi. I tragici erano quindi in grado di mettere l’una contro l’altra l’ignoranza e la conoscenza: la conoscenza degli spettatori era superiore a quella dei personaggi (era simile a quella degli dei), e tuttavia era solo sui personaggi che gli spettatori sapevano tanto, mentre su se stessi erano esattamente nello stesso stato di completa umana ignoranza. Lo shock del riconoscimento, per il quale Aristotele coniò la formula houtos ekeinos (“quest’uomo che mi vedo davanti è lo stesso di cui ho sentito raccontare prima nelle storie”), non poteva assolutamente lasciare uno spettatore riflessivo immune in un’illusione compiaciuta circa la propria conoscenza e circa il proprio potere: la somiglianza tra personaggio e spettatore (su cui Aristotele insisteva) voleva dire che sia lo spettatore sia il personaggio soffrivano esattamente della stessa ignoranza e fragilità ontologica. Nella stessa città di Atene che, travolta da una incontrollabile cupidigia di potere e ricchezza, si era imbarcata in quegli stessi anni in una brutale campagna di imperialismo militare che sarebbe presto finita in una totale disfatta, nella distruzione e nel caos, ogni anno (nello stesso teatro di Dioniso dove i cittadini votavano per la guerra e il genocidio) i suoi poeti celebravano il dio del vino ricordando a quegli stessi cittadini, (che assistevano alle festività per obbligo religioso e politico), i limiti della conoscenza, l’inevitabilità del fallimento, la fragilità della felicità e l’autodistruttività dell’ambizione. Gli antichi greci non ebbero un monopolio sul teatro, giacché forme simili si ritrovano in altre parti del mondo, come il Noh giapponese, l’opera cinese, il Topeng balinese, e il teatro Sanskrit indiano. Ma la tragedia greca è quella che ha più influenzato tutta le forme successive di letteratura, e non solo nel mondo occidentale. Forse questo successo non è solamente dovuto alla sua eccezionale qualità estetica e alla sua appropriazione, canonizzazione e diffusione da parte dei poteri imperialistici europei, ma anche al paradosso del fatto che l’Atene del V secolo non soltanto produceva tragedia nel suo teatro, ma la esemplificava anche con la sua stessa tragica storia. Il potere sembra sempre irresistibilmente affascinato dalla tragedia e al medesimo tempo è pressoché incapace di applicare a se stesso la verità di quello che vede accadere sulla scena. Nel nostro mondo di oggi, che pare sempre più non riconoscere valori diversi dall’”interesse personale” (che vuol dire egoismo), dalla “ricchezza” (che vuol dire avidità), dallo “sviluppo” (che vuol dire ambizione) e dal “realismo” (che vuol dire potere), le lezioni della tragedia greca continuano a essere attuali quanto inascoltate. Ed anche in questo senso, sfortunatamente, siamo tutti Ateniesi.
(Traduzione di Alessandro Pagnini)
2.(Continua)