venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 9.8.15
Alfred Hitchcock (1899-1980)
Ciak! Si gira la psicoanalisi
di Vittorio Lingiardi


Perché da un feuilleton gotico che ispira un film non del tutto risolto nasce una delle storie più belle, più note, più amate del cinema? La risposta è tutta negli ingredienti: Hitchcock, il trauma e la psicoanalisi. Il romanzo è T he House of Dr. Edwardes di Francis Beeding (pseudonimo degli scrittori inglesi Saunders e Palmer) pubblicato nel 1928 e oggi proposto dal Saggiatore nella collana “La letteratura secondo Hitchcock” (già usciti Psycho di Robert Bloch e Marnie di Winston Graham). Il film, lo sapete, è Spellbound, noto in Italia come Io ti salverò. Nella celebre intervista a Truffaut, Hitchcock dice: «Era tutto nel romanzo. Una storia melodrammatica e folle, in cui un pazzo si impadroniva di una clinica psichiatrica. Perfino le infermiere erano pazze. La mia idea era molto più ragionevole, quello che mi interessava era girare il primo film sulla psicoanalisi». Fu un successo enorme. Grazie alle due star (Ingrid Bergman e Gregory Peck), certo, ma anche a una seducente semplificazione della psicoanalisi e dei suoi elementi chiave: il trauma, la rimozione, lo psicoanalista come archeologo e investigatore, il transfert, il sogno, la matrice ipnotica e la catarsi finale. Piegare la psicoanalisi al cinema e non fare un cinema psicoanalitico: questo lo spirito con cui Hitchcock ha girato i suoi film «psicoanalitici». Fino a dire che Io ti salverò è «una storia di caccia all'uomo in confezione pseudopsicoanalitica». Lo stesso vale per La donna che visse due volte (il doppio e lo specchio), Psycho (Edipo e psicosi), Marnie (trauma infantile). Meno per Gli uccelli, il più propriamente psicoanalitico perché il più insaturo, il meno rassicurante, il meno «spiegabile».
È il 1944. Hitchcock viene a sapere che il suo produttore, David O. Selznick, è in cerca di una trama sulle possibilità curative della psicoanalisi. Anticipandone le mosse, compra i diritti di The House of Dr. Edwardes per poi proporlo al produttore. Selznick accetta entusiasta. Porta più volte sul set la sua analista, May E. Romm, come consulente scientifico. Un’invasione di campo mal tollerata dal regista che, all’ennesima critica, liquida così la dottoressa: «Mia cara, ma è solo un film!». La collaborazione con il co-sceneggiatore Ben Hecht è fruttuosa e affiatata. Insieme trasformano la possessione demoniaca del dottor Murchison di Beeding in un tormento della colpa. «Sono posseduto (spellbound) - dice Gregory Peck - ma non so da cosa».
Inizialmente il film doveva essere un adattamento fedele del libro, ma Hitchcock stravolge trama e personaggi: dove il romanzo racconta di un paziente psicopatico e satanista che prende il posto del medico curante, cercando di coinvolgere in un sabba delirante tutta la clinica, il film è invece la storia di un giovane medico che assume la direzione di una clinica psichiatrica. Presto si scopre che è un «impostore amnesico», probabile assassino del vero dottore. Ma una psicoanalista, Constance, si innamora di lui e crede nella sua innocenza. I due fuggono insieme e alla fine la dottoressa riuscirà a curarlo e a provare la sua innocenza, dunque a «salvarlo». Anche nel film il dottore protagonista è un «ladro di identità», ma non ha croci tatuate sotto i piedi o il carisma sulfureo Murchison. Piuttosto, ha i comportamenti imprevedibili del grave traumatizzato. Quanto a Constance, nel romanzo è un personaggio piuttosto semplice, che cede al fascino del diabolico dottore. Hitchcock, invece, disegna con Ingrid Bergman l’evoluzione dalla rigida dottoressa alla donna travolta dalla passione. Indimenticabile, per Truffaut, la sequenza delle porte che si aprono dopo il primo bacio con Ballantyne/Peck. Quella di Constance/Bergman non è un’infatuazione, è un amore capace di più sfumature: un pericoloso controtransfert d’amore. Che, al di là di un setting reso rocambolesco dalle necessità della «caccia all’uomo», comprende anche sentimenti materni.
Nel romanzo, la pazzia dello pseudo-Murchison, come quella degli altri pazienti, è una forza oscura, satanica. Nel film, il mistero e lo sdoppiamento sono legati al trauma, evocato da immagini che si impongono alla mente del protagonista: una forchetta che traccia righe sul bianco di una tovaglia, una vestaglia a righe bianche e nere, le linee parallele delle rotaie, il solco degli sci su una pista innevata. Se dovessimo tentare una diagnosi, il disturbo di Ballantyne ricadrebbe probabilmente nella sfera nei disturbi dissociativi di origine traumatica. Compresi i bruschi cambiamenti dell’umore, disturbi del sonno, attacchi di panico, flashback, stati allucinatori, amnesie, vuoti temporali, episodi di depersonalizzazione. Nel romanzo la follia di Murchison è più «semplice», più schematica. La sua doppiezza è al servizio di «stelle» oscure e spaventose, che richiedono il sacrificio di anime innocenti. Nel film, l’elemento perturbante diventa interiore e può essere affrontato e risolto con gli strumenti della cura psicoanalitica. Non è un caso che il film si apra con questa citazione dal Giulio Cesare shakespeariano: «La colpa, caro Bruto, non è nelle stelle, ma in noi stessi». Ciò che nel romanzo era attribuito al diavolo, ora trova casa nella mente. Una mente fatta a pezzi perché colpita dal trauma. Una mente che può essere guardata, curata e persino amata.
Il modo in cui la psicoterapia viene rappresentata al cinema è un esempio di come la società considera la psicoterapia stessa. L’interesse del grande schermo per le terapie, infatti, non nasce dal desiderio di raccontare ciò che accade realmente nella situazione analitica, bensì dall’idea che queste possano comunicare qualcosa sui miti e le fantasie collettive relativi alla malattia mentale e la sua cura. Lo psichiatra Irving Schneider ha classificato le rappresentazioni cinematografiche degli psichiatri in tre macrocategorie: il dottor Dippy, sciocco, paradossale, incompetente e innocuo (l’esempio per antonomasia è il protagonista del film muto del 1906, Dr. Dippy’s Sanitarium); il dottor Evil, punitivo, criminale, più disturbato dei suoi pazienti/vittime (tipici il dottor Caligari o Hannibal Lecter); il dottor Wonderful, sensibile, spiritoso, capace di dare buoni consigli e operare guarigioni «miracolose». Lo psichiatra Brulov di Io ti salverò è un tipico dottor Wonderful. Tra le battute migliori: «Buonanotte e sogni d’oro…che analizzeremo domattina a colazione!», «Vi auguro di avere bambini e non fobie!». Dietro ai suoi occhialini, pipa e accento straniero (l’attore è Michail ?echov, nipote di Anton) non è difficile cogliere un omaggio di Hitch al vecchio Freud. Trasformando un romanzo avvincente in storia paradigmatica, iconizzata dalla fotografia di George Barnes, dai disegni di Salvador Dalì e dalla musica di Miklòs Ròzsa (geniale l’idea di usare il theremin a commento delle psicosi), Hitchcock, portando a Hollywood «per la prima volta» la psicoanalisi, stabilisce i canoni del thriller psicologico.
Frances Beeding, Io ti salverò, Traduzione di Lorenza Di Lella e Sonia Scognamiglio, Il Saggiatore, Milano, pagg. 280,€ 16,00