Il Sole Domenica 9.8.15
Festival del film di Locarno
Cinquant’anni di rabbia
Alla kermesse svizzera, che ospitò la prima dei Pugni in tasca, Pardo d’onore a Bellocchio
Pur iconoclasta, il film non piacque a Buñuel
di Goffredo Fofi
Molto prima di Marco Bellocchio conobbi suo fratello Piergiorgio, che mi aveva invitato a scrivere di cinema sui Quaderni piacentini, e l’impatto con I pugni in tasca - che sarà proiettato in Piazza grande il 14 agosto nell’ambito del Festival del Film di Locarno, dove a 50 anni dalla prima locarnese - fu mitigato da quel che ne avevo sentito dire “in famiglia”. Eppure quando vidi il film a Venezia, fui sbalordito dalla sua forza, dal suo coraggio. Un grido di rivolta contro la famiglia, contro la piccola borghesia, contro la provincia e il provincialismo italici, addirittura – nel Paese più mammista del mondo – contro la mamma. Ma condividendo nello stesso tempo un sentimento di impotenza che un titolo perfetto esprimeva alla perfezione. Che si sapesse, il giovane regista non era in analisi, e il film non si preoccupava di spiegazioni tormentate e tormentose, psico-filosofiche (il limite di tanti suoi film, nell’ambizione di voler scavare e scavare, spiegare e spiegare il fondo degli umani comportamenti) e andava diritto alla scopo, lavorando su una sceneggiatura dove la tensione cresceva di azione in azione senza divagazioni e senza oratoria, dimostrando, dando per acquisito un giudizio che era più sociale che morale e che non si curava minimamente del comune senso della morale che allora era in auge. Insieme a Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, che era però un secondo film anche se il vero debutto “d’autore” del giovane parmense, dopo l’esercitazione calligrafica di La commare secca, figurò come una sorta di manifesto generazionale, di una generazione di “prima della rivoluzione” del ’68, che però la sua rivoluzione doveva fallirla per interna povertà e per esterna e massiccia prepotenza.
Oltre la loro importanza di “rilevatori storici”, riconosciuta anche dagli storici di professione, questi due film mantengono una loro estetica forza, pur nella loro differenza – più pacato e “borghese” il parmense, più furioso e “piccolo borghese” il piacentino. Bellocchio voleva provocare e ci riusciva, aggredendo il cuore dei nostri costumi, vedendo nella famiglia il perno d’ogni più generale compromissione, se non corruzione. Forse la crisi di questo nucleo sociale primario era già in atto, e il benessere aveva cominciato a dare qualche risultato. Anche se è probabile che Bellocchio fosse partito da considerazioni tutte sue più che da modelli chiari, però aveva studiato cinema a Londra e aveva certamente subito qualche influenza degli angry young men del teatro e d’altre arti.
In ogni caso, l’impatto del suo film e della sua visione/rifiuto della famiglia fu avvertito da tutti, anche da chi non era d’accordo con i suoi modi di affrontarla. Le critiche che suscitò da parte cattolica erano prevedibili, e certamente il film non entusiasmò la sinistra ufficiale (il Pci, gli “zavattiniani” buonisti di allora, padri e madri di quelli di poi), ma non furono queste a colpire di più. A suo modo Bellocchio voleva essere anche un regista “politico”, e il suo secondo film, una “commedia di costume” molto efficace, La Cina è vicina, sconcertò lo stesso Pietro Nenni e fece infuriare molti socialisti perché metteva in berlina l’ingresso del Psi nel governo, la nascita del centro-sinistra. La sola critica che mi sconcertò, e sulla quale pensai più tardi a ogni visione successiva del film, fu quella di Luis Buñuel, che per esempio i critici della rivista francese «Positif» su cui scrivevo, eredi in parte del gruppo surrealista – Breton era ancora ben vivo – prevedevano sarebbe stata positiva. Buñuel, invece, detestò il film. Non ho ritrovato la sua risposta al giornalista che la diffuse, ma ricordo che si dichiarò addirittura scandalizzato dal film e dalla sua morale. Residui cattolici anche in lui? O non piuttosto una visione diversa dell’uomo e della società – più complessa e più radicata quella di Buñuel di quanto non fosse quella del giovane Bellocchio che, come molti film futuri dimostrarono (con rare eccezioni, come Il principe di Homburg o Vincere).
Se per Buñuel mi capitò di parlare di “prigione cristiana”, anche in senso positivo, per Bellocchio si potrebbe parlare, alla luce della sua vasta e importante opera, di “prigione freudiana”, con la differenza che la “prigione cristiana” ha permesso a Buñuel libertà e ricchezza narrativa densa di riferimenti metafisici, diciamo pure etico-religiosi, assenti in Bellocchio, poco portato alla metafisica e all’antropologia, e ovviamente alla religione. A cinquant’anni di distanza, la furia iconoclasta di I pugni in tasca si è parecchio attutita e Bellocchio è da tempo un distinto regista di una certa età, pacificato da tempo col mondo in cui vive ma ancora inquieto e interrogante su cos’è l’uomo, e forse su cos’è egli stesso, cos’è ciascuno di noi. Un regista laico, serio, che insiste e scava sugli stessi tempi da sempre. Un regista adulto, ma in un’epoca assurda in cui avremmo forse gran bisogno di giovani nuovamente “arrabbiati”, più assai che di saggi perlustratori dell’umana intima imperfezione.