Corriere La Lettura 24.6.12
La medicina è servizio
La società ha ribaltato il senso del termine terapia: non più «prendersi cura», ma «curare»
di Umberto Curi
«Servizio»
 — è questo il significato originario del termine greco therapeía. E 
dunque è letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione del 
therápon. Nell'Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati 
come therápontes rispetto ad Achille, perché sono appunto al suo 
«servizio», perché lo «assistono», agendo quali attendenti del grande 
guerriero. Di qui anche il comportamento al quale essi dovranno 
attenersi. In quattro luoghi distinti del poema, riferendosi 
specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: phílo 
epepeítheth' etaíro — «obbedì all'amico». La therapeía implica 
l'obbedienza. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, 
se non ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque
 prestandogli obbedienza.
Un contesto di significati molto simile 
si ritrova anche in relazione al termine latino che corrisponde quasi 
letteralmente alla parola greca therapeía. Difatti, cura sta a indicare 
anzitutto la «sollecitudine», la «premura», l'«interesse» per qualcuno o
 (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa 
disposizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi 
in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire
 per prima cosa «stare in pensiero», essere «preoccupati» per lui.
Una
 traccia non irrilevante di questa accezione originaria si ritrova 
peraltro anche in alcune lingue moderne. In inglese, to care for vuol 
dire «prendersi cura», senza riguardo ai possibili modi concreti nei 
quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall'uso 
prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell'espressione I care («mi 
interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»). Ancora più interessante è 
il termine tedesco Sorge (abitualmente tradotto con l'italiano «cura»), 
soprattutto se ci si riferisce al significato col quale compare in 
particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a 
indicare la determinazione ontologica fondamentale dell'Esserci, vale a 
dire il fatto che l'Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in 
quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita umana.
Per
 quanto inevitabilmente cursoria, questa ricognizione 
etimologico-linguistica lascia emergere con chiarezza un punto. Alle 
origini della tradizione culturale dell'Occidente — pensiamo a quanto la
 Grecia resta importante — le parole che designano la «cura» alludono a 
una condizione soggettiva — quella di chi «si preoccupa» e dunque si 
pone al «servizio» — e non a un contenuto determinato nel quale si 
oggettiverebbe tale «preoccupazione». Anche quando il soggetto di cui si
 parla assume una configurazione in qualche modo tecnica, come avviene 
nel caso del medico, ciò che i termini antichi sottolineano in lui non è
 la messa in campo di atti specifici, bensì la presenza di una 
«preoccupazione» per colui che egli dovrebbe assistere. Patroclo è 
genuinamente therápon di Achille non perché faccia concretamente delle 
cose per lui, ma perché è in pensiero per l'amico, perché lo ascolta 
(obbedire — ob-audire — vuol dire «mettersi all'ascolto»). Analogamente,
 per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà 
essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è
 stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitudine debba
 tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche 
terapeutiche.
Con il passare dei secoli, si assiste a una 
trasformazione radicale nel significato dei termini, quale riflesso di 
un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si 
riferiscono, in direzione di una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, 
infatti, titolare pressoché esclusivo della «cura» diventa il medico, 
unica figura legittimata a svolgere il ruolo del therápon. Io posso 
bensì «essere in pensiero» per il mio amico o il mio familiare; ma se 
voglio «curarlo» devo affidare questo compito al medico. Dall'altro 
lato, e in connessione con questa «professionalizzazione», la «cura» 
perde ogni connotazione «affettiva» e viene piuttosto a indicare un 
complesso di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Curare 
non è più — come in precedenza — un verbo che allude allo stato d'animo 
del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la molteplicità di 
azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo intransitivo diventa un
 verbo transitivo che riguarda gli atti concreti effettuati su colui che
 sia «oggetto» della cura.
Il culmine di questo processo si 
raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di massa e poi 
in maniera sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La 
«cura» non ha più alcun rapporto con la disposizione d'animo del 
terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla cura — i farmaci e ogni 
altro intervento di manipolazione del paziente — ogni sua residua 
«preoccupazione». Materialmente impossibilitato a stare in pensiero 
contemporaneamente per molte centinaia di individui, il medico 
trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti 
concreti, inevitabilmente «neutri» dal punto di vista sentimentale, la 
cui efficacia dipende dunque esclusivamente da un'incidenza «misurabile»
 in termini quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio 
capovolgimento. Il terapeuta — non importa se del corpo (quale è il 
medico generico) o dell'«anima» (come vorrebbe essere lo psicologo) — 
non è colui che, mosso da premura, «obbedisce» al suo assistito ma, 
all'opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi a una «cura», 
ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti chimici di 
un farmaco. E tanto più valente sarà quel terapeuta che saprà svolgere 
la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando quel 
coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare o compromettere 
la sua capacità di «curare». Fino al paradosso del medico perfetto — 
immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro dell'identità e della 
«storia» del paziente, e proprio per questo in grado di «curarlo» 
secondo protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di 
principio «efficaci» per qualunque paziente, a prescindere da 
peculiarità individuali.
Non è nota l'origine del termine greco 
therápon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il latino 
comes — «colui che accorre accanto», «che sta vicino», «che assiste», 
magari senza «fare» nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso 
storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà 
perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via 
informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci.
 
