mercoledì 26 agosto 2015

Il Sole 26.8.15
Il calo del petrolio è un vantaggio globale
di Davide Tabarelli


Era il 6 marzo 1999 e l’Economist uscì con la copertina che titolava “Stiamo annegando nel petrolio”.
Il barile stava scendendo verso i 5 dollari, da medie nei mesi precedenti di 10 dollari. Fu quella minaccia che spinse pochi giorni dopo l’Arabia Saudita ad un accordo con l'Iran nella riunione Opec. Come oggi, era un periodo segnato da eccesso di offerta, allora per il ritorno dell’Iraq, nel 2015 per quello dell’Iran, a cui i sauditi, per ragioni simili, non vogliono, per il momento, fare posto. La domanda frenava, a causa della crisi asiatica del 1997, a cui quella di oggi assomiglia in maniera minacciosa. Era già accaduto nel 1985 e nel 1988: l’Arabia Saudita, prima di agire, ha bisogno di almeno un anno di prezzi bassi, o in forte calo, per fare capire a tutti che è lei che comanda sul mercato. È il primo produttore mondiale, con quasi 11 milioni barili al giorno, ha il 16% delle riserve mondiali di petrolio, secondo, di poco, solo al Venezuela, ma, soprattutto, ha i costi di produzione più bassi, assieme a quelli dell’Iraq, sotto i 5 dollari per barile. Sono questi i costi marginali che tornano ad essere rilevanti ogni qualvolta, per ragioni per lo più politiche, saltano gli accordi Opec e si scatena la competizione nel Golfo Persico. Una volta trovato l’accordo, con la produzione che verrà limitata, i costi marginali rilevanti per i prezzi torneranno ad essere quelli al di fuori del Medio Oriente, soprattutto quelli dei nuovi progetti della fratturazione idraulica negli Usa, oltre i 50 dollari, e quelli dell’Artico, oltre i 70-80 dollari. La decisione di non tagliare la produzione e di far partire una guerra dei prezzi fu presa a fine novembre 2014 e prima della riunione Opec del prossimo dicembre 2015 difficilmente i sauditi cambieranno strategia, poi si vedrà.
Nel frattempo i bassi prezzi trasferiscono potere d’acquisto nelle tasche dei Paesi consumatori, in particolare di quelli europei che ne hanno bisogno più di altri, visto le severe politiche di bilancio a cui si sono votati. Un calo stabile di 20 dollari per barile, quello che ha perso il Brent nelle ultime settimane, rappresenta un risparmio per l’Europa dell’ordine di 90 miliardi di dollari su base annua, almeno mezzo punto di Pil. Per gli Usa, che sono il secondo produttore mondiale, l’effetto della riduzione del prezzo sulle importazioni, che ormai contano per meno di un terzo dei consumi, è bilanciato dalla minore attività interna legata alla fratturazione che nell’ultimo anno si è più che dimezzata. Preoccupa molto quello che accadrà agli esportatori di petrolio, molti vicini all’Italia. La Russia, Paese europeo, in guerra con un altro Paese europeo, l’Ucraina, soffre già del peso delle sanzioni, e un petrolio in calo aggrava una recessione già oltre quest’anno il -4%. La Russia è, fra le grandi economie, quella più esposta al calo del barile, in quanto le vendite all’estero di energia contano per quasi il 20% del Pil nazionale. Oltre ad essere il secondo esportatore di greggio al mondo, dopo i sauditi, è di gran lunga il primo esportatore di gas, destinati in gran parte all’Europa. Fra i membri che più stanno richiedendo una riunione urgente dell’Opec vi è l’Algeria, Paese che già prima preoccupava per la sclerotizzazione del sistema politico interno e che è, assieme alla Russia, il principale fornitore di gas dell’Italia. La Libia poggia buona parte delle sue speranze di riunificarsi sulle entrate di petrolio passate, oltre 100 miliardi di dollari, che stanno riducendosi visto che le esportazioni si sono quasi azzerate da oltre un anno. Dovesse tornare la produzione della Libia, in condizioni normali, a 2 milioni barili al giorno, i prezzi, però, tonerebbero a scendere. Con una visione di più lungo termine, per questi Paesi si conferma come il petrolio sia più un problema che un’opportunità: è una rendita, quella della malattia olandese (“Dutch desease”), che inibisce la capacità interna di espandersi su proprie imprese, condizione questa per avere più democrazia e stabilità politica. Anche per questo il calo del prezzo del petrolio è sempre una notizia positiva per l’economia globale: stimola i consumi, contiene l’aumento dei prezzi e forza i produttori a non vivere di rendita e, fra l’altro, a comprare meno armi.