martedì 25 agosto 2015

Il Sole 25.8.15
Un terremoto globale con epicentro a Pechino
Con le mosse cinesi vengono al pettine molti nodi irrisolti
di Riccardo Sorrentino


Gli investitori erano convinti: Pechino avrebbe fatto di tutto per difendere quota 3.500. Ieri hanno dovuto rivedere tutte le loro certezze. L’indice di Borsa Shanghai Composite ha sfondato quella soglia praticamente all’apertura della seduta.
Da quel momento, tanti fattori economici che sembravano poter restare in secondo piano nelle strategie operative si sono improvvisamente riflessi sulle quotazioni.
La «fine» delle distorsioni
Senza l’argine di Pechino, le Borse hanno dovuto rivalutare tutto. Innanzitutto la volontà e l’effettiva capacità della politica economica, in tutto il mondo, di sostenere i mercati. Per anni – a partire dalla crisi del 2007, ma non erano mancate lunghe fasi analoghe in precedenza – le quotazioni finanziarie sono state “distorte”, felicemente distorte agli occhi degli investitori, dagli interventi pubblici, e soprattutto dalla politica monetaria: i tassi a zero e il quantitative easing (qe) negli Usa, in Gran Bretagna, poi in Giappone e infine in Eurolandia hanno spinto verso il basso i prezzi dei bond e verso l’alto quelli delle azioni e hanno un po’ disabituato gli investitori a gestire situazioni con meno interventi. Una massa di liquidità è entrata in circolazione in un sistema già da tempo dominato da cambi fissi e semi-fissi, guidati dai governi, che hanno tentato di adattarsi all’urto diseguale di questa quantità di denaro: la Cina aveva un sistema valutario che permetteva movimenti relativamente limitati ogni giorno, mentre altri Paesi avevano conservato regimi più rigidi.
La Fed verso la stretta
Tutto questo sta lentamente venendo meno. I qe di Usa e Gran Bretagna sono terminati, e gli investitori si chiedono se la Fed inizierà ad alzare i tassi a settembre o più tardi. Pochi giorni fa lo yuan ha subito un deprezzamento che ha però fatto temere una lunga svalutazione competitiva e soprattutto aveva fatto venir meno quella che era un’àncora per molte valute: il cambio gestito di Pechino.
Valute emergenti ai minimi
Le banche centrali di altri Paesi asiatici o emergenti in genere, dalla Corea del Sud alla Turchia, alla Nigeria al Perù, passando per Brasile, Russia e India sono quindi attivissime in queste ore nel difendere le loro monete, che in molti casi hanno toccato i minimi da diversi anni già venerdì: se un rialzo eccessivo, in parallelo al dollaro, danneggia la crescita, una flessione troppo intensa può surriscaldare i prezzi o favorire una fuga di capitali. Ora che neanche la Cina ha più la volontà, e forse la capacità, di mantenere stabili i mercati – sono stati costretti a chiedersi gli investitori – chi mai potrà farlo?
Molti sono in realtà pronti ora a scommettere che la Fed, a questo punto, rinvierà il rialzo dei tassi perché il dollaro forte potrebbe frenare un’inflazione non ancora tornata ai livelli “normali”.
Manca il motore per la crescita
Si tratterebbe però solo di acquistare tempo: la situazione economica sottostante non è particolarmente brillante, in tutto il mondo. Gli Stati Uniti, con la forza del dollaro, sono rimasti l’unico consumatore globale: le importazioni sono calate, per la forza del dollaro, ma del solo 3,4% da marzo 2014 a luglio 2015. Eurolandia, invece, marcia con il freno tirato dell’austerità: malgrado il quantitative easing della Bce la sua ripresa è lenta ed è ancora creditless (i prestiti alle aziende non aumentano) e jobless (non si creano posti di lavoro). Le vicende greche hanno pesato non per la loro effettiva importanza – il Paese è proprio piccolo, sull’area globale – ma perché hanno mostrato che le priorità del mondo politico dell’area euro sono lontane dalla crescita. La Cina ha “deciso” di far rallentare l’economia al 7% nello sforzo di riequilibrare il motore della crescita a favore della domanda interna - che si sta effettivamente rafforzando - ma gli economisti pensano che il Paese abbia incontrato qualche limite sul fronte dell’offerta: l’economia è più matura e non regge più i ritmi rapidi di sviluppo del passato, la forza lavoro diminuisce per ragioni demografiche, il sistema creditizio potrebbe persino essere sotto l’effetto di una bolla (e questo timore rende ancora più preoccupati gli investitori, in queste ore).
La frenata della Cina
È proprio la Cina, in questa fase, a essere al centro dello scenario. Per quanto esportatore globale, incide con la sua crescita e le sue importazioni sull’andamento dei Paesi asiatici dell’area – persino Singapore è in difficoltà – e su quello delle materie prime. La flessione delle commodities, legata solo in parte a fattori sul lato dell’offerta – gli investimenti petroliferi entrati a regime – sta ora colpendo diverse economie e diversi governi che sulle royalties minerarie avevano basato le loro fortune: la Russia è un caso emblematico ed estremo, ma i casi sono diversi, come testimonia l’andamento di tutte le valute legate alle materie prime. Le tensioni sui mercati, a loro volta, mettono in difficoltà alcuni emergenti più “deboli”, quelli che hanno un forte deficit corrente (in generale più importazioni che esportazioni) e non riescono a finanziare i loro acquisti dall’estero.
Il rischio di deflazione
L’austerità europea, con il quantitative easing forse non sufficiente, il rialzo dei tassi Usa, la lentezza cinese e la flessione delle materie prime, creano infine un rischio di deflazione che non a caso ieri ha molto inquietato gli investitori. Le aspettative di inflazione sono
ulteriormente calate e restano al di sotto dell’obiettivo generale del 2%. Su tutto, pesa la tendenza dei mercati a drammatizzare molto gli eventi. Nulla, nel complesso scenario globale, è davvero nuovo. Neanche le crescenti difficoltà della politica economica, e di quella monetaria, a individuare e contrastare nel modo e nelle modalità giuste problemi e squilibri. L’effetto gregge, che a volte sui mercati è persino razionale - è molto costoso navigare contro corrente - sembra ancora essere la spiegazione migliore forse non di quello che è accaduto ieri, ma sicuramente dell’intensità dei movimenti delle quotazioni.