venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 9.8.15
I numeri contano (lo diceva anche Platone)
di Francesco Giavazzi


Il problema
Nel suo libro Numeri. La creazione continua della matematica (Bollati Boringhieri, pp. 138, e 14), Gabriele Lolli, docente di Filosofia della matematica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, espone il problema dei naufraghi, della scimmia e delle noci di cocco, ripreso in questo articolo da Francesco Giavazzi, per mostrare come a volte sia utile astrarre dalla realtà materiale e portare un problema sul piano strettamente matematico, in questo caso con l’utilizzo dei numeri negativi, per giungere più facilmente a una delle soluzioni possibili, che costituisce anche una chiave per trovare quelle che valgono sul piano positivo: tra di esse, la soluzione
dal valore più basso è che le noci all’inizio erano 15.621
Bibliografia
Nel 2014 Lolli ha pubblicato Se viceversa. Trenta pezzi facili e meno facili di matematica (Bollati Boringhieri, pp. 308, e 24) . Da segnalare anche Emma Castelnuovo, Pentole, ombre, formiche: in viaggio con la matematica (La Nuova Italia, 1993). Negli anni scorsi Einaudi ha pubblicato
La matematica , un’opera a più voci in quattro volumi, a cura di Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi

L’aritmetica, cioè lo studio dei numeri, «se la si pratica per acquistare conoscenza, non per fare i mercanti, costringe l’anima a ragionare sui numeri in se stessi, non come oggetti relativi a corpi visibili e palpabili» (Platone, Repubblica ). E tuttavia i greci avevano un problema con i numeri negativi: non riuscivano a spiegarne l’esistenza. Gabriele Lolli in Numeri (Bollati Boringhieri) racconta che si impiegarono molti secoli per venire a capo dei numeri negativi proprio perché, dimenticando il suggerimento di Platone, i numeri erano pensati come grandezze «visibili e palpabili».
E a questo proposito racconta il problema delle noci e della scimmia: «Si immagini che 5 marinai finiscano naufraghi su un’isola dei Tropici, abitata solo da una scimmia e rigogliosa di alberi di cocco. Decidono di raccogliere le noci. A sera hanno formato un bel mucchio e vanno a dormire ripromettendosi di suddividerlo in parti uguali l’indomani. Durante la notte un naufrago decide di avvantaggiarsi sul bottino: divide le noci in 5 parti uguali, e gliene avanza una che regala alla scimmia. Poi nasconde la propria parte, riforma il mucchio e torna a dormire. Dopo di lui altrettanto fanno gli altri naufraghi, uno di seguito all’altro. A ciascuno avanza sempre una noce, che regala alla scimmia. Al mattino i 5 tornano insieme al posto delle noci, e facendo tutti lo gnorri le ripartiscono nuovamente in 5 parti uguali, avanzandone ancora una che viene data alla scimmia. Quante erano le noci all’inizio? Il problema si risolve impostando le dovute equazioni, ma la sorpresa è che esiste una soluzione negativa: -4, che fra l’altro è fondamentale per trovare tutte le altre. Supponiamo che -4 fossero le noci all’inizio della nottata. Quando il primo naufrago le divide, ne tiene -1 per sé e ne riserva -1 a ciascuno dei suoi 4 compagni, per un totale di -5 noci. La differenza fra le -4 iniziali e le -5 finali è la noce (+1) data alla scimmia. A quel punto il mucchio è ancora fatto di -4 noci, mentre il naufrago nasconde senza fatica la sua -1 noce. Lo stesso si ripete altre quattro volte ma alla fine resta sempre un mucchio di -4 noci, e così appare al mattino quando i naufraghi vanno a dividerlo. A quel punto si può pensare che dividano il mucchio, prendendo -1 noce ciascuno, e regalino +1 noce alla scimmia, che è l’unica che ci guadagna avendo ricevuto 6 noci. Si noti, come controprova, che ogni naufrago viene ad avere -2 noci (quella rubata durante la notte e quella distribuita al mattino), per un totale di -10 noci, che con le +6 della scimmia fanno -4. I conti tornano».
Il lettore che rifletterà sull’esempio dei cinque naufraghi, ricorderà il modo in cui la matematica (naturalmente con qualche eccezione) gli è stata insegnata a scuola. «Troppo spesso — scrive ancora Gabriele Lolli ( Se viceversa: trenta pezzi facili e meno facili di matematica , Bollati Boringhieri) — la matematica consiste nell’applicare le formule stampate nel libro per risolvere il problema che l’insegnante ha dettato alla lavagna. È un errore colossale, che condanna la matematica ad essere concepita come un defatigante lavoro automatico e noioso, complesso solo in quanto intricato».
Non c’è da stupirsi che generazioni di studenti la trovino ostica e antipatica. La matematica non è questo. Basterebbe insegnare ai ragazzi a trovare la formula col ragionamento, invece che semplicemente applicarla. Cambierebbe tutto.
Una dimostrazione matematica non è mai una scorciatoia che qualcuno ha trovato (chissà come) per fare i calcoli più in fretta. Semmai, scrive Lolli, «è più simile a una passeggiata, senza fretta, con deviazioni e ritorni e visite su percorsi laterali, in un paesaggio abitato da pensieri e parole». La matematica insegnata a scuola è più simile alla religione, fornisce verità date per appurate, da mandare a memoria, negando agli studenti la gioia, e il brivido, di trovare da sé una propria verità, sulla quale poi discutere e argomentare». Se la matematica è «un viaggio per soddisfare le curiosità partendo da qualche teoria suggerita da problemi di pentole, da osservazioni sulle ombre, e da riflessioni fatte da una formica pensierosa», come scrisse Emma Castelnuovo — la più grande insegnante di matematica della scuola italiana ( Pentole, ombre, formiche: in viaggio con la matematica , La Nuova Italia) — perché allora a tanti risulta così ostica?
Il problema non sono solo i cattivi docenti — peraltro molti cercano di seguire l’insegnamento di Emma Castelnuovo e l’Italia ha una tradizione di grandi matematici. Io credo che la ragione sia più complessa e risieda, almeno in parte, nell’avversione che il nostro Paese prova riguardo al rigore, a un pensiero lineare e sintetico, preferendo un approccio approssimativo e poco attento.
Una società che ha tanto in disprezzo il merito non può amare i numeri. «Quando puoi misurare ciò di cui stai parlando, ed esprimerlo in numeri, tu conosci qualcosa su di esso; ma quando non puoi misurarlo, quando non puoi esprimerlo in numeri, la tua conoscenza è scarsa e insoddisfacente: può essere l’inizio della conoscenza, ma nei tuoi pensieri, sei avanzato poco sulla via della scienza» (William Thomson, Lord of Kelvin).
La scarsa attenzione per la misurazione dei fenomeni in generale si riflette anche, con conseguenze spesso disastrose, sulla scuola. Perché sorprenderci di quanto accaduto nel maggio scorso, il giorno in cui avrebbero dovuto svolgersi i test amministrati dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (Invalsi). Questi test — che fanno parte del Programme for International Student Assessment (Pisa) — hanno lo scopo di valutare i livelli di apprendimento degli studenti al terzo anno della scuola secondaria di primo grado. «L’invito a boicottare i test ha avuto successo», ha detto la Rete degli studenti: «Secondo un sondaggio di Skuola.net uno studente su quattro era intenzionato a boicottare le prove, stamattina possiamo confermare l’altissima adesione alla protesta. Le studentesse e gli studenti delle classi seconde hanno consegnato in bianco, letto un libro mentre somministravano le prove, non sono entrati in classe, hanno organizzato sit-in e manifestazioni di protesta» (in realtà l’80 per cento degli studenti ha svolto il test).
Alla protesta degli studenti ha aderito il sindacato degli insegnanti: «Queste prove sono utili solo qualora vengano utilizzate come indicatore per programmare nuove strategie. Disco rosso, invece, se si vogliono utilizzare per valutare il merito degli insegnanti». Commentava Andrea Ichino ( Quel rifiuto di misure oggettive , «Corriere della Sera», 13 maggio 2015): «Boicottare il test (come misura per conoscere lo stato di benessere delle scuole) è equivalente a boicottare l’uso del termometro nelle diagnosi mediche. Entrambi sono strumenti imperfetti di misurazione ma relativamente poco costosi rispetto ad altri disponibili. Tanto più che non si tratta di strumenti definitivi ma utili nel caso per avviare indagini più approfondite. Boicottarli non permette quello che in ogni misura è fondamentale: la comparazione confrontabile tra scuole e classi diverse, che altrimenti andrebbe affidata alla soggettività dei docenti o di chissà chi altri. Quale sistema di valutazione può prescindere da una misurazione standardizzata che abbia queste caratteristiche? Chi auspica che se ne possa fare a meno ha l’onere di spiegare quali altri strumenti possono essere utilizzati. Il sospetto è che il boicottaggio dei numeri Invalsi non derivi da una critica a questo specifico strumento di misurazione, ma dal rifiuto di qualsiasi misurazione». Lo stesso accade nelle università rispetto alle valutazioni dei dipartimenti effettuate dall’Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur).
Queste valutazioni sono uno strumento essenziale sia per decidere l’allocazione delle risorse pubbliche alle varie sedi, sia per i giovani che devono scegliere dove iscriversi: conoscere la qualità relativa dei dipartimenti è un’informazione essenziale per la scelta dell’università. Per esempio, nella scelta del corso di laurea cui iscriversi è importante sapere se le varie sedi si equivalgono, oppure se esistono ampie differenze nella qualità dei dipartimenti. Le analisi dell’Anvur mostrano che in alcune discipline la qualità scientifica dei docenti è più volatile (se la si misura utilizzando il coefficiente di variazione come criterio) che in altre: per esempio il coefficiente di variazione è 0,24 in Fisica e in Scienze dell’antichità e filologiche, mentre è 0,65 in Architettura. Lezione: fare molta attenzione nella scelta della facoltà di Architettura.
Certo, come dice Andrea Ichino per la scuola, nessun sistema di valutazione è perfetto, ma non è un’informazione importante sapere se un dipartimento è fra i primi o fra gli ultimi cinque in Italia? I critici della valutazione affermano che «l’Anvur spinge irresistibilmente verso la misurazione quantitativa. A ciò inducono i numeri» (Piero Bevilacqua sul sito ateneinrivolta.org). È vero che le valutazioni bibliometriche, cioè fondate su criteri numerici, talvolta possono essere distorte e dare risultati diversi da valutazioni effettuate tramite la cosiddetta «peer review», cioè valutazioni da parte di studiosi terzi, possibilmente non italiani (il 20 per cento dei valutatori scelti dall’Anvur non insegna in università italiane).
Ma anche qui i numeri aiutano. Graziella Bertocchi, Alfonso Gambardella, Tullio Jappelli, Carmela Nappi e Franco Peracchi in Bibliometria o peer review per valutare la ricerca su lavoce.info hanno confrontato i due metodi di valutazione per le discipline economiche, manageriali e per la storia economica: «Ciascuno dei due metodi ha pregi e difetti. La “peer review” consente un’analisi approfondita di ciascun testo, ma presuppone la disponibilità di un gran numero di esperti indipendenti e l’assenza di conflitti di interesse. L’analisi bibliometrica ha tempi brevi e costi contenuti, però misura la qualità di un lavoro scientifico esclusivamente attraverso le citazioni ricevute dal lavoro stesso o dalla rivista in cui è pubblicato. È dunque rilevante chiedersi se valutazione bibliometrica e “peer review” producano risultati simili con riferimento alla valutazione di insiemi di ricercatori quali i dipartimenti. Almeno nelle aree di ricerca da noi prese in considerazione, “peer review” e valutazione bibliometrica sono buoni sostituti». L’opposizione, tanto diffusa, al tentativo, per quanto imperfetto, di misurare la qualità dell’insegnamento e della ricerca dà spazio a giudizi soggettivi o all’assenza di qualsiasi giudizio: così che diventa arduo per uno studente scegliere con cognizione di causa. Che peccato!