venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 9.8.15
Pettegolezzi, traffici e qualche omicidio
L’agorà di Atene oltre le leggende
di Luciano Canfora


Atene, 411 a.C.: «Frinico, appena rientrato dalla missione a Sparta, fu pugnalato a tradimento da una delle guardie, nell’ora in cui l’agorà è piena di gente. Riuscì a fare ancora qualche passo allontanandosi dalla sede del Consiglio, dopo di che crollò, spacciato». Così descrive il «film» dell’attentato Tucidide, testimone oculare, nel clima torbido di Atene sotto il governo di una cricca oligarchica: di cui Frinico era leader riconosciuto e da Tucidide apprezzato come modello di «lealtà». Dell’attentato fiorirono poi le più varie versioni, ma quella di Tucidide è ovviamente l’unica vera. Mesi dopo, quando aver ammazzato Frinico divenne un merito, si fecero avanti altri che si pretendevano autori dell’attentato, e furono anche premiati, pur se sospettati di essere dei millantatori. Il dettaglio che passa per lo più inosservato, nelle frettolose ricostruzioni moderne, è l’agorà piena di gente: eppure proprio questo aveva consentito all’attentatore di svanire nel nulla. L’agorà piena di gente — cuore della città, spazio pubblico tra l’acropoli e l’areopago — rappresenta lo scorrere normale della vita: traffici, commerci, pettegolezzi degli oziosi, specie nelle ore di punta. Agorà ha la stessa radice di ageiro (raccogliere), di agorazo (commerciare, ma anche bighellonare) e di agoreuo (parlare in pubblico). Anche in quell’anno terribile la vita scorreva «normale»: l’uomo si adatta. Nell’agorà si accampavano venditori di ogni genere di merci, e anche i banchieri ( trapeziti ), e gli alleati in attesa spesso esasperante di veder sbrigate le loro pratiche. Un pamphlet oligarchico di quegli anni sostiene che, solo corrompendo i giudici, riuscivano a sbrigarle. In un angolo della piazza si vendevano anche i libri usati, per quattro soldi, ricorda Socrate nell’ Apologia : in particolare — precisa sornione — quelli di Anassagora, il filosofo «ateo» amico di Pericle e scampato per sua fortuna a un pericoloso processo. Sull’agorà si affacciava la sede del «Consiglio» dei Cinquecento, scelti a sorte, i quali predisponevano l’ordine del giorno dell’assemblea (in regime di normalità democratica). L’assemblea si riuniva altrove. Sede della politica, luogo dell’incontro/scontro assembleare tra popolo e capi (per lo più signori o ricchi o entrambe le cose) non era infatti l’agorà, ma la collina della Pnice. Lì si riuniva l’assemblea popolare, lì c’era il bema (la tribuna: ancora oggi «To Vima» è una testata giornalistica di sinistra). All’assemblea ci andavano soprattutto i politicizzati. Ma la sede dove davvero tutto il popolo si ritrovava, e decretava, con l’applauso, vittorie e sconfitte di grandi e meno grandi artisti, era il teatro, con l’altare di Dioniso ben in vista, posto ai piedi dell’acropoli. Qui decine di migliaia affluivano e per giorni e giorni partecipavano al rito collettivo più importante, e certo più formativo, della città. Quando, secoli dopo, Atene chiese e ottenne la protezione di Mitridate il Grande, contro Roma, un capopopolo eloquente arringò la folla: «La Pnice è deserta, il teatro è muto». Solo l’agorà continuava a funzionare.