domenica 30 agosto 2015

Corriere La Lettura 30.8.15
La storia del divenire / La filosofia
Il complesso di Eraclito
Anticipò l’idea di un cosmo senza finalità Capì che noi siamo le nostre esperienze
di Mauro Bonazzi


Ci sono scrittori che devono la loro fama a una frase brillante. L’ironia, nel caso di Eraclito, è che il senso della frase non gli mancava, ma è passato alla storia per qualcosa che non ha mai scritto. Panta rei , «tutto scorre», non l’ha detto lui. E sì che i tentativi di illuminare il pensiero di Eraclito non mancano, da G. F. W. Hegel a Karl Popper a Martin Heidegger e oltre. «Lo sai che tutto cambia, nulla si può fermare… e intanto passa ignaro il vero senso della vita», cantava Franco Battiato, che fra tutti è forse quello che lo ha capito meglio.
Una passione di Eraclito, forse un’ossessione, sono stati i fiumi: «Acque sempre diverse scorrono intorno a quanti si immergono negli stessi fiumi». Questo aforisma esprime un’idea più interessante del semplice «tutto scorre», che è in fondo un’idea banale. Per quelli che entrano negli stessi fiumi scorrono acque differenti. Le acque scorrono, ma il fiume rimane lo stesso. O meglio: proprio perché le acque scorrono, il fiume rimane lo stesso, è quello che è. Se infatti non ci fossero acque, non ci sarebbe un fiume, ma un greto; se invece ci fossero acque che non scorrono, non ci sarebbe un fiume, ma un lago.
Che tutto si trasforma e diviene è evidente. L’intuizione, la scoperta di Eraclito è che il divenire avviene secondo un ordine intrinseco; c’è una stabilità anche nelle trasformazioni, e le cose mantengono una loro identità. In un mondo in cui si dessero solo trasformazioni e cambiamenti, che senso avrebbe parlare delle singole realtà, come se possedessero una loro stabilità? Per Platone, per cui l’eraclitismo era stato un errore giovanile, un mondo immerso nel divenire era una follia priva di senso: e visto che la stabilità e l’identità comunque esistono, bisognava cercarle da un’altra parte, non nel mondo imperfetto in cui tutto diviene, ma nel mondo perfetto delle idee. Questa è la metafisica.
L’intuizione di Eraclito è però più economica: siccome le acque cambiano, il fiume permane in una sua identità. Non ci sono le acque da una parte e il fiume dall’altra. Il fiume è l’acqua che scorre. L’identità è nel cambiamento e non serve postulare l’esistenza di una realtà stabile al di là del nostro mondo: identità e cambiamento, molteplicità e unità coesistono, si appartengono l’un l’altra, perché niente esiste da solo. Siamo abituati a pensare alle cose e ai processi isolatamente, ma il nostro è un mondo complesso, in cui tutto si tiene (questa, più o meno, è l’etimologia di complesso): le relazioni contano. Ogni singolo ente fa parte di un insieme più grande e si definisce in rapporto a ciò che non è. Non ci sarebbe la luce senza il buio, il freddo senza il caldo, il vecchio senza il ragazzo. Il conflitto non distrugge, genera. « Polemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re».
Che cos’è un arco? Apparentemente è un oggetto stabile, statico e privo di tensioni interne; in realtà, l’arco esiste soltanto nella misura in cui si dà opposizione, conflitto, tensione tra la corda e il legno. L’arco è questo conflitto, perché la sua esistenza dipende dalla tensione: se la corda riuscisse a incurvare il legno fino a spezzarlo non ci sarebbe più un arco, e neppure si potrebbe parlare di arco quando legno e corda non fossero più in tensione. L’arco è la tensione degli opposti, ed è una descrizione della realtà. «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde, armonia contrastante, come quella dell’arco». Da tante parti s’invoca oggi la fine della metafisica: a seguire Eraclito non sarebbe neanche iniziata.
Possono sembrare banalità, per alcuni saranno forse follie; a pensarci bene, però, è un’immagine rivoluzionaria della realtà. Un’immagine molto attuale: riconoscendo nel divenire un segno d’imperfezione, filosofi e teologi si sono affannati a trovare altrove le cause d’ordine del nostro mondo: se non sono le idee di Platone, è il Dio di Aristotele e delle religioni. L’intuizione di Eraclito è che non c’è che questo nostro universo, che risulta dal conflitto dei suoi elementi costituenti e che funziona secondo regole precise, che non possono essere violate. Il mondo si autoregola in conseguenza dell’ordine dei suoi cambiamenti: «Questo cosmo, che per tutte le cose è il medesimo, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà, fuoco sempre vivente, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne». Come può esserci un ordine senza ordinatore? Eppure è così: come il fiume, così anche l’universo, la sua esistenza e la sua unità, dipende dal flusso ordinato («secondo misura») dei suoi costituenti, che rimangono complessivamente gli stessi.
Oggi non vediamo l’universo diversamente. Non c’è caos, ma complessità e la complessità può essere spiegata se si ragiona correttamente. Con buona pace di Platone, c’è una logica (Eraclito è il primo a fare uso sistematico del termine logos ) nella «follia» del divenire.
Prima di festeggiare la liberazione dai gravami della metafisica, bisogna però capire a che cosa si rinuncia.
Tutto quello che accade, accade secondo delle relazioni causali, ma non tende verso nessun fine, non risponde a nessun progetto o a nessun disegno intelligente. Questa, in termini moderni, è una buona descrizione dell’universo secondo Eraclito. È chiaro che cosa ci lasciamo dietro? Le stesse idee le ha espresse anche Friedrich Nietzsche, con parole più accorate. Un uomo folle iniziò a urlare «Dio è morto» tra la gente che lo guardava divertita. A ragione: chi s’interessa ancora di Dio al giorno d’oggi, chi ne fa menzione nelle conversazioni tra persone colte? Eppure non è una morte di poco conto.
Dio era la garanzia che l’universo, questo immenso universo che perennemente si trasforma, avesse un senso, rispondesse a un disegno di cui ciascuno di noi faceva parte. Era un’idea rassicurante, che filosofi, teologi e scienziati hanno coltivato per secoli: tutto tende a un fine. E oggi? L’universo di cui ci parla la scienza contemporanea, infinito, sterminato, in cui la nostra microscopica Terra occupa una posizione di assoluta marginalità, causalmente determinato, ma non finalisticamente orientato, non è diverso da quello di Eraclito. Ma siamo capaci di pensare a questo fatto, di coglierne la portata? Questa era la preoccupazione di Nietzsche, che lo ha portato alla follia: «Che mai facemmo, a sciogliere questa nostra Terra dalla catena del suo Sole? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non si è fatto più freddo?». Forse, però, un esito così drammatico non è necessario. Forse si tratta soltanto d’imparare a guardare questo nostro mondo con occhi diversi. «Il bellissimo cosmo è spazzatura sparsa a caso».
La navigazione si fa impervia ed Eraclito non fa nulla per rassicurarci. Del resto, sono molti ancora i pregiudizi da cui dobbiamo liberarci. Tutto scorre, tutto diviene: pensiamo sempre alle cose o agli altri, ma noi? Facciamo anche noi parte della realtà, e dunque anche per noi deve valere lo stesso principio.
Tempo fa è stato condotto un esperimento interessante, che tutti possono riprodurre. È stato chiesto ad alcune persone sulla quarantina di valutare giudizi e opinioni che avevano espresso vent’anni prima: tutti hanno guardato a questi pensieri con ironico distacco, come passioni giovanili, che non rappresentavano davvero ciò che costoro pensavano di essere. Vent’anni dopo si è chiesto a queste stesse persone di valutare pensieri e idee che avevano a quarant’anni. E di nuovo la reazione unanime è stata quella di un distacco ironico. «Quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono»: lo aveva già scritto Petrarca, senza bisogno dell’esperimento. Ma in questo divenire continuo di pensieri ed emozioni esiste qualcosa che possiamo definire «io»? Non c’è pregiudizio più radicato della «metafisica dell’io», di questa convinzione che noi, solo noi, prescindiamo dal cambiamento, come se fossimo impermeabili rispetto a ciò che ci circonda.
Si deve allora concludere che non esiste un’identità stabile, che non esiste nessun io, perché tutto si trasforma continuamente? Ancora una volta, Eraclito suggerisce una soluzione più valida per mettere ordine nelle nostre complessità. Forse l’identità è proprio nel cambiamento. «Acque sempre diverse scorrono intorno a quanti si immergono negli stessi fiumi». Nel testo greco «gli stessi» si può riferire anche agli uomini: «Acque diverse scorrono intorno alle stesse persone che s’immergono nei fiumi». L’affermazione secondo cui per le stesse persone che entrano nei fiumi scorrono acque diverse potrebbe sembrare banale. Ma non è così, se solo si identificano il fiume e l’uomo (come la struttura della frase invita a fare): come l’identità del fiume è garantita dallo scorrere delle acque, così l’identità di un uomo è garantita dal flusso delle sue esperienze. Noi siamo le esperienze che facciamo. Ciò che siamo è ciò che diveniamo, non si può prescindere da ciò che ci circonda e da come reagiamo di fronte a ciò che ci capita, bello o brutto che sia. Senza conoscere il dolore possiamo sapere che cosa è la gioia?
Ed è questa la lezione di Eraclito, che dagli spazi immensi dell’universo ha concentrato il suo sguardo verso le nostre profondità interiori («Per quanto tu proceda non riuscirai a trovare i limiti dell’anima, percorrendo ogni via: tanto profondo è il ragionamento che la riguarda»). Anche noi siamo parte di questo tutto che si trasforma eternamente secondo il suo ritmo: dobbiamo imparare a conformarci a questo ritmo, trovando il nostro equilibrio. Perché ciò che diventiamo, come ci confrontiamo con le persone e le situazioni, determinerà la vita che condurremo. La felicità è una conquista: solo così potremo evitare che il senso della nostra vita passi ignaro.