venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 26.7.15
Aforismi
Zenone e Nietzsche
Non sempre il naufragio è un sinonimo di fallimento
di Umberto Curi


Secondo Diogene Laerzio (non sempre attendibile), la prima formulazione della sentenza risalirebbe a Zenone di Cizio, al quale si attribuisce la fondazione della scuola stoica. «Naufragium feci, bene navigavi», avrebbe detto il filosofo, alludendo a una circostanza specifica della sua vita. Coinvolto in un naufragio, avrebbe avuto l’occasione di conoscere Cratete, al cui insegnamento fu debitore di un mutamento radicale della sua esistenza. Di per sé, l’aforisma sembra contenere una contraddizione. Com’è possibile affermare di aver navigato bene, se si è fatto naufragio? Ma, pur potendosi presentare come un ossimoro o, più esattamente, proprio per questo motivo, la sentenza era destinata ad essere ripresa e rilanciata più volte. Già in parte adombrata nel De rerum natura di Lucrezio, là dove l’autore afferma che «è dolce osservare da terra il travaglio di altri che si trovino in piena burrasca», essa ritorna in Erasmo e Arthur Schopenhauer, per poi campeggiare per ben quattro volte negli scritti di Friedrich Nietzsche. Interessante è la ripresa erasmiana del motto, raccolta negli Adagi col numero 1878, perché contiene una modifica, rispetto alla formulazione originale, con l’introduzione di due avverbi temporali — nunc e postea — capaci, se non di stravolgere, almeno di orientare in un senso preciso l’interpretazione del detto: « Ora ho navigato bene, dopo che ho fatto naufragio». L’evento, che abitualmente appare come traumatica conclusione della navigazione, è invece assunto come esperienza capace di ammaestrare, e dunque di rendere «buona», la navigazione successiva al disastro.
Ma è Nietzsche colui che, più di altri, ha colto il potenziale eversivo della sentenza stoica. Troppo facile, infatti, oltre che vagamente consolatorio, istituire una correlazione lineare fra le due affermazioni contenute nel detto. Troppo banale, e infine irrilevante, sottolineare il ruolo «pedagogico» insito nell’esperienza del naufragio. Troppo «hegeliano» sarebbe cogliere nel naufragio un momento necessario, proprio per la sua negatività, nella navigazione dello spirito. La valenza esplosiva dell’aforisma deve essere valorizzata in tutte le sue implicazioni. A cominciare dalla salvaguardia della forma grammaticale — un ossimoro, appunto, una contraddizione in termini — che non deve essere «rimediata» con l’aggiunta di qualche avverbio in grado di distinguere piani e livelli. La collisione fra navigare e naufragare va rispettata, senza tentare di porre l’una esperienza al «servizio» dell’altra, senza sforzarsi di disinnescare la forza contundente del naufragio.
Il «senso», anche se non la «lettera», del ragionamento nietzscheano è chiaro. Tenendo presente che quella della navigazione è una delle metafore più ricorrenti, per designare il «viaggio» dell’umana esistenza (ce lo ricorda, fra gli altri, Hans Blumenberg nel Naufragio con spettatore ), si potrà dire di aver «bene navigato» non se si sarà capaci di evitare il naufragio (come vorrebbe una lettura della sentenza in chiave di logica aristotelica), ma proprio perché si è fatto naufragio . Questo appare dunque non come indizio di un presunto fallimento del progetto incarnato nella navigazione, e neppure come deragliamento, rispetto al percorso di un «navigare» a cui si possa attribuire la qualifica di «bene». Ma, esattamente al contrario, è esso il segno del pieno compimento. Dolce non è soltanto osservare, da una terra sicura, il travaglio di chi affronti il naufragio. Nel mare tempestoso della nostra vita, come scrisse Giacomo Leopardi, soprattutto dolce è il naufragio stesso.