venerdì 21 agosto 2015

Corriere 9.8.15
Il Sessantotto sotto processo
Mughini: l’illusione rivoluzionaria generò violenza
Boato: cambiarono i rapporti umani
di Antonio Carioti


Dal 1968 è passato quasi mezzo secolo, ma della contestazione giovanile si continua a discutere con calore, tanto che a San Mauro Pascoli, in Romagna, domani si terrà un vero e proprio processo simbolico. Si tratta del tradizionale appuntamento organizzato dall’associazione Sammauroindustria, presieduta da Miro Gori, ogni 10 agosto, data in cui nel 1867 venne ucciso il padre del poeta, Giovanni Pascoli, da cui la località prende il nome. In passato sono finiti alla sbarra Giuseppe Mazzini, Palmiro Togliatti, il conte di Cavour e molti altri. Quest’anno il pubblico giudicherà i giovani contestatori.
Tra quei ragazzi in rivolta c’era anche Giampiero Mughini, che però domani svolgerà, insieme a Giancarlo Mazzuca, il ruolo di accusatore. Come mai? «Non voglio certo mettere in croce il mio passato — risponde —, anche perché senza il Sessantotto in Italia la modernità, nella cultura e nel costume, non sarebbe diventata appannaggio delle masse. Ma dalle frange più furibonde del movimento io mi dimisi già il 1° maggio 1969, quando vidi i miei compagni di generazione, compresa la ragazza che amavo, sfilare a Catania sotto i ritratti di Mao e di Stalin. Allora ruppi con l’idea velleitaria, anzi imbecille, di fare la rivoluzione in Occidente, da cui sarebbero sgorgati il settarismo gruppettaro e la violenza omicida. La guerra civile psicotica che vivemmo poi si deve anche a quella sbandata ideologica. Gli assassini di Luigi Calabresi non venivano da Marte, come qualcuno oggi sembra credere».
Invece Marco Boato, un altro ex sessantottino che a San Mauro vestirà con Marcello Flores la toga dell’avvocato difensore, considera sbagliato istituire un collegamento diretto tra contestazione e terrorismo: «La lotta armata venne dopo, negli anni Settanta, come nefasta degenerazione minoritaria dell’estrema sinistra. E andò in senso opposto al movimento delle origini. Il Sessantotto fu un una protesta collettiva, libertaria, di massa, alla luce del sole, che cambiò gli equilibri sociali e i modi di pensare della gente, mentre i gruppi armati erano clandestini, elitari, militarizzati, isolati dal contesto sociale. Il movimento prese degli abbagli ideologici, ci furono anche derive staliniste, confinate peraltro alla Statale di Milano. Ma il Sessantotto nel suo complesso ebbe un positivo carattere antiautoritario».
C’è però chi eccepisce anche sulle spinte libertarie. Per esempio lo storico Giovanni Orsina, che nel 2005 ha curato con Gaetano Quagliariello un volume dal titolo La crisi del sistema politico italiano e il Ses santotto (Rubbettino): «In un Paese con un debole senso dello Stato, la contestazione di ogni autorità e tradizione ha finito per assecondare e accentuare le spontanee tendenze anarcoidi degli italiani, scassando ulteriormente un sistema istituzionale già molto fragile, fino a rendere la società ingovernabile. Sul piano del costume si è giustamente posto l’accento sull’autodeterminazione dell’individuo, ma purtroppo è stato trascurato il correlativo principio di responsabilità. Così ha preso piede una concezione della libertà disgiunta da qualsiasi indirizzo etico, che reclama sempre più diritti e non vuol sentir parlare di doveri».
Però di affermare i diritti c’era un gran bisogno, obietta un altro storico, Alberto De Bernardi, autore con Flores del libro Il Sessantotto (Il Mulino, 2002): «Senza il Sessantotto non avremmo avuto le leggi sul divorzio e sull’aborto, né il nuovo diritto di famiglia. Può aver alimentato forme di individualismo esasperato, ma ha rotto molte incrostazioni, ha modernizzato la mentalità diffusa, ha cambiato i comportamenti degli stessi organi statali (pensiamo alla magistratura), ha introdotto un nuovo e più dinamico concetto di cittadinanza. Il suo vero punto debole è consistito nell’incapacità di produrre una progettualità politica all’altezza delle aspettative che aveva suscitato».
Su questo concorda anche Boato: «Nel 1988 uno degli esponenti migliori del Sessantotto all’Università di Trento, Mauro Rostagno, poco prima di cadere da eroe civile in Sicilia sotto i colpi della mafia, esaltò a distanza di vent’anni l’esperienza della contestazione: disse che grazie a noi erano cambiati i rapporti umani, ma aggiunse che per fortuna non avevamo vinto sul piano politico-ideologico. Io mi trovo d’accordo con lui».
Il fatto è, sottolinea Orsina, che proprio su quell’opzione perdente i contestatori avevano puntato le loro carte: «La grande illusione del Sessantotto era appunto quella che la politica potesse cambiare radicalmente il mondo e la vita, consentendo agli uomini di prendere in mano il loro destino. Nei fatti la contestazione è stata l’ultima fiammata di un’utopia fallimentare».
Tuttavia, nota De Bernardi, non è giusto addossare tutte le colpe ai giovani: «Le istituzioni e i partiti tradizionali avrebbero dovuto accogliere le critiche dei contestatori come uno stimolo per avviare un’iniziativa riformatrice. Invece non seppero elaborare risposte costruttive. L’unica strategia di ampio respiro messa in campo allora fu il compromesso storico di Enrico Berlinguer, quanto di più lontano si potesse immaginare dallo spirito del Sessantotto».
Mughini però non se la sente di assolvere i contestatori: «In fondo il Pci cercò di frenare gli estremisti, ma si portava dietro troppe ambiguità: basti pensare all’ex partigiano comunista che regalò la sua vecchia pistola al brigatista rosso Alberto Franceschini perché ne facesse buon uso. D’altronde, quando anche la crema della cultura italiana agitava il libretto di Mao o bollava Luigi Calabresi come un torturatore, placare gli animi era difficile. E per giunta molti dei protagonisti di quelle follie oggi fanno finta che non siano mai accadute».