venerdì 21 agosto 2015

Corriere 8.8.15
Semmelweis vittima del suo genio

Capì che la scarsa igiene dei medici faceva strage di puerpere. Vilipeso e isolato, morì in manicomio

«Assassini! Così chiamo tutti coloro che si oppongono alle regole che ho prescritte per evitare la febbre puerperale!» Non andava leggero con le parole, Ignác Semmelweis, nel sostenere le sue tesi contro l’ottusità di colleghi che rifiutavano di accettare la sua scoperta. Al netto della sua ammirazione lo stesso Louis-Ferdinand Céline, che gli dedicò la strepitosa tesi di laurea ( Il dottor Semmelweis , ora ristampata da Edizioni Clandestine), riconosce: «Per dovere verso la verità dobbiamo segnalare un grave difetto di Semmelweis: quello di essere brutale in tutto e in particolare con se stesso».
Fortissimamente convinto d’aver visto giusto e d’avere scoperto la causa dell’ecatombe di donne al momento del parto («Sono le dita degli studenti, contaminate da recenti dissezioni che, visitando le donne in stato di gravidanza, portano gli agenti cadaverici nei loro organi genitali») reagì a diffidenze, ostilità, invidie, con un crescente furore che sfociò infine nell’ossessione. Ancora Céline: «Volle così sfondare tutte le porte ostili ma, nel vano tentativo, si ferì crudelmente. Quelle porte si sarebbero aperte solo dopo la sua morte».
Nato sulla sponda destra del Danubio a Budapest nel 1818, figlio di un droghiere benestante che voleva fare di lui un giudice militare, mandato a Vienna a studiare legge, ma presto travolto da una cotta per la medicina, allievo prediletto nonostante le spigolosità caratteriali di due luminari dell’epoca quali Karl von Rokitansky e Josef Škoda, presto annoiato da quelle lezioni così «teoriche da risultare inutili alla causa alla quale si era votato: quella dei malati», si laureò ventiseienne con una tesi sulla vita delle piante. Piena di poesia: «Quale spettacolo rallegra lo spirito e il cuore...».
Impossibilitato a entrare dove sperava, ripiega (con la garanzia che avrebbe avuto il permesso di dissezionare i cadaveri delle donne morte per interventi ginecologici o febbri improvvise) su ostetricia. E finisce assistente nel padiglione diretto da Joh Klein. Una macelleria. Basti dire che nel solo 1842 vi muoiono il 27 per cento delle puerpere in agosto, il 20 per cento in ottobre, il 33 per cento in dicembre. Al punto che le donne, racconta Céline, «preferiscono quasi sempre (…) partorire in strada, dove i pericoli sono in realtà di gran lunga minori».
Semmelweis vive ogni morte come una coltellata. «Non riesco a riposare, il suono della campanella che precede l’arrivo del prete, giunto a consolare le agonizzanti, si è radicato per sempre nella mia anima», confida all’amico Lajos Markusovsky. «Tutti gli orrori quotidiani, verso cui mi sento impotente, mi tormentano. Non posso seguitare in questo stato in cui tutto risulta oscuro tranne il numero dei decessi».
Ma perché, perché, perché tutte quelle donne muoiono di parto dopo il parto? E perché ne muoiono molte più nel reparto di Klein che in quello dirimpettaio diretto da Bartch? «Le cause cosmiche, telluriche, idrometriche, che vengono invocate a proposito della puerperale, non possono avere fondamenta dal momento che si registrano più decessi da Klein che non da Bartch, più all’ospedale che in città, dove le condizioni cosmiche, telluriche e così via, sono pur sempre le stesse». Per mesi e mesi il giovane medico studia ogni più piccolo dettaglio: dove sono le differenze? Dove, dove, dove? Finché una la trova: Bartch impiega levatrici, Klein studenti di medicina.
Riesce a convincere i due primari a fare uno scambio tra i padiglioni: di qua le levatrici, di là gli studenti. «La morte seguì gli studenti, le statistiche divennero vieppiù preoccupanti e Bartch, sconvolto, decise di rimandare gli studenti al reparto di origine». Lo stesso Klein, il quale era sempre più stizzito verso quel suo assistente così geniale e insolente, che non rispettava le gerarchie ed era «ben deciso a soffocare quella verità con tutti i mezzi», dovette prenderne atto. E che fece? Scaricò tutto sugli studenti stranieri. E ne buttò fuori tanti da dimezzare gli allievi da 42 a 20. Non era quella però, si capì ben presto, la soluzione. Ma quando Semmelweis fece piazzare dei lavabi alle porte della clinica, chiedendo agli studenti di lavarsi bene le mani prima di entrare ed ebbe la sfrontatezza di chiedere la stessa cosa a lui, Sua Eccellenza il Primario, Joh Klein, che trovava «il lavaggio assolutamente ridicolo», pensò che fosse ora di liberarsi di quel fastidioso e sfrontato braccio destro.
Cacciato, se ne andò per un paio di mesi a Venezia, se ne innamorò (pur trovando le gondole «un po’ lente») e al ritorno venne preso, grazie a Škoda che non aveva mai smesso di credere nel suo genio, nel reparto di Bartch. In pochi giorni convinse il primario a ripetere lo scambio con Klein. E di nuovo la vita seguì le levatrici e la morte seguì gli studenti. Finché «fece introdurre nei bagni una soluzione di cloruro di calce con la quale ogni studente era tenuto a detergersi accuratamente le mani, prima di intraprendere qualsiasi tipo di azione su una donna gravida». Annoterà Céline: «Senza vederli, aveva toccato i microbi». Ma era dura, convincere gli scettici. Tanto che lui stesso, per una distrazione o volutamente, chissà, finì per sperimentare le sue teorie: visitata una donna che aveva un tumore al collo dell’utero «senza lavarsi si recò a mettere mano in cinque donne in fase di dilatazione. Nelle settimane che seguirono, le cinque donne morirono di febbre puerperale tipica e questo valse a risolvere definitivamente la faccenda».
«Le mani possono infettare per semplice contatto», scrisse. «E che abbiano o meno maneggiato cadaveri, tutti d’ora in avanti saranno tenuti a detergersi le mani accuratamente con una soluzione di cloruro di calce prima di entrare nel reparto». La storia, l’evoluzione del microscopio, Louis Pasteur e tutti gli scienziati a venire gli avrebbero dato ragione. Ma il povero Ignác Semmelweis non l’avrebbe mai avuta vinta contro l’ostruzionismo, la superbia, l’invidia dei colleghi.
Costretto a tornare a Budapest, coinvolto nelle giornate rivoluzionarie del 1848, prostrato da fratture e vari guai sanitari, abbattuto da difficoltà economiche, iniziò a slittare verso la pazzia: «Fu posseduto di volta in volta dal riso, dalla vendetta, dalla bontà, totalmente e senza ordine logico…». Aveva scoperto la verità, e si rifiutavano di vederla. Dice tutto una lettera della amministrazione dell’ospedale dove lavorava. Col rifiuto «di pagare le cento paia di lenzuola da voi ordinate (…) perché reputate una spesa inutile. Utilizzate quelle che avete per più parti».
Morì, delirante e disperato, centocinquanta anni fa, il 13 agosto 1865. Ignaro che milioni di donne gli avrebbero dovuto la vita.