sabato 29 agosto 2015

Corriere 29.8.15
Netanyahu, al tavolo con Renzi il rischio Iran
di Davide Frattini


Benjamin Netanyahu e Matteo Renzi: oggi la cena a Firenze tra il leader israeliano e il premier. Netanyahu è pronto a lanciare l’allarme nei confronto del regime iraniano e intende ripetere l’avvertimento già passato a Renzi durante il viaggio a Gerusalemme a luglio: le aziende italiane non corrano a firmare contratti con Teheran, il rischio è perdere gli investimenti. Il successore di Obama alla presidenza potrebbe decidere di imporre di nuovo l’embargo economico, il patto con il regime — fanno notare i consiglieri di Netanyahu — non piace al 60 per cento degli americani. «Renzi è un alleato chiave nella lotta tra le forze del progresso e quelle del buio».
Il padre Benzion è stato per anni il segretario di Zeev Jabotinsky e dall’ideologo della destra sionista ha imparato a rigettare le interferenze straniere, una diffidenza che ha educato anche il giovane Netanyahu e che sembra ammorbidirsi solo quando il premier israeliano arriva in Italia, dove ha visitato l’Expo di Milano e dove questa sera incontra Matteo Renzi nella sua Firenze.
Benzion Netanyahu, scomparso nel 2012 a 102 anni, ha anche studiato per tutta la vita l’accanimento dell’Inquisizione spagnola contro gli ebrei e quelli che vengono chiamati i Secoli Bui del Medio Evo. Una tenebra che il figlio, al quarto mandato da primo ministro, vede ritornare. Nella sua analisi sta già velando parte del mondo, porta un nome (islam radicale) e i colori di due bandiere: quelle nere dello Stato Islamico e quella oscurantista del regime iraniano.
Bibi – come lo chiamano tutti gli israeliani – ha ereditato dal padre la visione pessimista della Storia e l’ostinazione di chi si ritrova (o si sente) solo nelle sue battaglie. Come quando Benzion curava il giardino di casa a Gerusalemme e chiedeva al figlio di aiutarlo: innaffiare, concimare, estirpare le erbacce. E di nuovo: innaffiare, concimare, estirpare le erbacce. Una fatica che al bambino sembrava senza senso, la gramigna continuava a ricrescere, allora il padre gli spiegò l’importanza della tenacia contro le malepiante, «altrimenti infesteranno tutto».
Il ricordo accompagna il leader israeliano nella visita a uno dei giardini che ammira di più per la sua bellezza, l’Italia, e che considera minacciato dalle «erbacce» quanto Israele: per lui è il momento di agire, l’Occidente deve intervenire, inviare le truppe, le guerre israeliane gli hanno insegnato che i bombardamenti – come quelli contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq – non bastano. «Renzi è un alleato chiave – dice – nella lotta tra le forze del progresso e quelle del buio che vogliono riportarci indietro».
Scruta il pericolo più grande nell’ideologia degli ayatollah. Che – ribadirà al primo ministro italiano – vogliono dominare il mondo, «ingoiare e divorare» ha proclamato davanti al Congresso americano. L’intesa sul nucleare con le potenze occidentali avrebbe solo accresciuto l’appetito egemonico perché cancellare le sanzioni economiche – ripete il premier ovunque vada – permetterà a Teheran di sponsorizzare la sua strategia espansionista. A partire dal Medio Oriente dove ormai sta intervenendo con i consiglieri militari e le forze speciali dalla Siria alla Libia.
Nell’incontro a Palazzo Vecchio il premier israeliano intende ripetere l’avvertimento già passato a Renzi durante il viaggio a Gerusalemme alla fine di luglio: le aziende italiane non corrano a firmare contratti in Iran, il rischio è perdere gli investimenti. Il successore di Barack Obama alla presidenza può decidere di imporre di nuovo l’embargo economico, il patto con il regime – fanno notare i consiglieri di Netanyahu – non piace al 60 per cento degli americani.
Il premier che tiene sul comodino le Memorie di Winston Churchill scopre di avere alleati tra i Paesi senza relazioni diplomatiche ufficiali con Israele: l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo preoccupate quanto lui dall’avanzata iraniana. Nuovi contatti che potrebbero portare anche a una svolta nei negoziati con i palestinesi, ormai congelati da un anno e mezzo. Il governo israeliano starebbe rivedendo «l’iniziativa saudita» del 2002, la possibilità di un’intesa che porti al riconoscimento dello Stato ebraico nella regione in cambio della pace con i palestinesi.
Netanyahu non nasconde la sua diffidenza verso Abu Mazen, è convinto che le trattative potrebbero ripartire solo se il presidente palestinese venisse forzato dai leader arabi. Lo schema europeo e americano – almeno secondo questo governo israeliano – non funziona più, rappresenta la mentalità (e le speranze) del passato: è disegnato attorno agli accordi di Oslo con le definizioni delle frontiere, il ritiro dalla Cisgiordania dell’esercito israeliano, l’evacuazione delle colonie ebraiche. Netanyahu – e gli israeliani che l’hanno votato ancora una volta lo scorso marzo – sono irrigiditi nelle loro posizioni intransigenti dai vent’anni passati da quella stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Il ritiro dalla Striscia di Gaza è diventato per la destra il simbolo degli errori da non ripetere: ha permesso l’ascesa dei fondamentalisti di Hamas e avrebbe offerto all’Iran una base d’attacco sul fronte sud.
Davide Frattini