Corriere 28.8.15
Masai
Sono i nomadi d’Africa, ma la loro vita è più stanziale
Cambiano anche i riti di passaggio (salvando 1.200 bimbe dalla mutilazione)
di Paolo Salom
L’anziana versa il latte con un gesto solenne, bagnando con cura il capo della ragazza che si è inchinata al suo cospetto. Intorno applausi, grida festose e i tradizionali salti danzanti dei Masai. In questa occasione non saranno i guerrieri, armati di lancia e scudo, i visi tinti d’ocra, il colore della savana, a prendere la scena. Ma 1.200 giovani donne, anzi, ragazze della tribù che proprio oggi affrontano il rito di passaggio all’età adulta. Soltanto una volta conclusa la cerimonia, ricevuta la benedizione dei capi villaggio, potranno considerarsi donne nel senso proprio del termine e allora, dopo una corsa a perdifiato tra le capanne, comincerà la loro vita da adulte: potranno sposarsi, avere figli. Ma anche studiare o affrontare il proprio futuro con scelte diverse da quelle dettate dalla millenaria tradizione di questo popolo stanziato a cavallo tra Kenya e Tanzania.
Rombo, a pochi chilometri dalla frontiera che divide i due Paesi, alle pendici del Kilimangiaro, nell’area di Loitokitok: siamo nel cuore dell’area Masai. È qui che si svolge il rito di iniziazione. Un rito da affrontare con coraggio. Che un tempo suscitava terrore in chi lo subiva e orgoglio tra i parenti. Perché il cuore di tutto era l’escissione e l’infibulazione, ovvero ciò che maldestramente si definisce la «circoncisione femminile». Termine che indica i vari stadi di mutilazione genitale femminile (Fgm, in sigla). «Il tutto affrontato senza contrarre un muscolo, senza un grido, senza poter nemmeno muovere gli occhi», ci dice Nice Nailantei Leng’ete, 24 anni, volontaria Amref e prima giovane del suo villaggio a rifiutare il cruento rito quando aveva soltanto 8 anni.
Questa volta è diverso. Perché le adolescenti — dai 12 ai 18 anni — oggi potranno tornare alle loro famiglie, ai loro villaggi fiere di non averlo subito. «Una rottura decisiva con consuetudini che si perdono nei millenni», ci spiega Tommy Simmons, fondatore, nel 1987, della sezione italiana di Amref, organizzazione no profit che promuove la salute in Africa. A dispetto del nome, Tommy Simmons, 60 anni, è italianissimo: «Mio padre, un soldato dell’armata britannica, conobbe e sposò mia madre a Roma, durante la guerra».
Ora Simmons è in Kenya, a preparare una cerimonia che si vuole grandiosa, il «Rito di passaggio alternativo» per 1.200 e più ragazze delle comunità che vivono in villaggi abbarbicati alle pendici del massiccio del Kilimangiaro. «Saranno tre giorni fondamentali — dice ancora Simmons —. Le ragazze sono ospitate in una struttura comune. Seguiranno corsi di salute sessuale e riproduttiva, ascolteranno le storie e le testimonianze di figure come Nice. E poi affronteranno il rito vero e proprio, vestite secondo la tradizione, alla presenza di genitori e parenti. Ma senza circoncisione». I numeri possono apparire piccoli. Ma 1.200 giovani che, insieme, accettano una cerimonia come quella gestita da Amref sono un segnale importante di come, seppur lentamente, le abitudine stiano cambiando. «La legge del Kenya vieta le mutilazioni femminili — conferma Tommy Simmons —. Ma un conto sono le norme, un altro farle rispettare nei villaggi più remoti».
Nel mondo, si calcola, sono cento milioni le donne che hanno subito questa terribile pratica. Il 90 per cento si trova in Africa, quasi tutte nel bacino del Nilo. E i Masai, divisi in dodici clan maggiori, provengono proprio da quell’area, da cui migrarono verso sud nel Sedicesimo secolo, portando con sé storia e tradizioni. Un popolo fiero e nomade, che un tempo dominava gli altipiani e viveva di pastorizia. Oggi, sempre più stanziali perché costretti via via nelle aree più sterili, cercano di sopravvivere alla modernità senza abbandonare la loro cultura. Fatta di rispetto per gli anziani (sono loro che amministrano la giustizia) e riti che cementano la coesione del clan. Come quello di passaggio che, per le donne, ha significato nei secoli la mutilazione genitale.
Solo di recente, grazie al lavoro delle ong, delle autorità locali, delle istituzioni internazionali, la lotta contro una pratica che può provocare gravi conseguenze fisiche, quando non è mortale, ha cominciato a dare risultati. Grazie anche al coraggio di singole donne. Come Nice, capace a 8 anni di ribellarsi e scappare di casa. «Avevo da poco perso i miei genitori — racconta —. Mia zia voleva che diventassi donna per poi sposarmi. Io volevo studiare. Mi sono opposta, sono fuggita». E ora, aggiunge, «spiego alle ragazze che l’istruzione è l’unica strada per l’emancipazione. Che noi abbiamo il diritto di sceglierci il marito e non di farcelo imporre».
Già il marito. «Per anni — sono le parole di Nice — sono stata insultata dagli uomini perché non ero circoncisa. Ma ora è diverso: anche loro cominciano a capire».