Corriere 27.8.15
Fare i conti con la storia
L’avvento della società di massa ha dettato l’agenda del novecento
di Antonio Carioti
La collana Grandangolo storia del «Corriere della Sera» parte oggi con il volume sulla Grecia classica, dove si delineano già in embrione il conflitto tra Oriente e Occidente (le guerre persiane) e lo scontro tra società aperta alle libertà civili (Atene) e modello collettivista militarizzato (Sparta). Due motivi che poi si ripresentano, seppure in termini radicalmente mutati, nei volumi finali dell’opera, che riguardano il Novecento, le due guerre mondiali, il confronto Usa-Urss, fino alla dissoluzione dell’impero sovietico. Sono le vicende per definire le quali si usa spesso la formula suggestiva di «secolo breve», derivante dal titolo di un famoso libro dello storico britannico Eric Hobsbawm, che copre appunto il periodo dal 1914 al 1991.
Tuttavia una chiave di lettura basata su questa scansione temporale non convince tutti gli studiosi. Per esempio Simona Colarizi, autrice del recente saggio Novecento d’Europa (Laterza), avanza alcune obiezioni: «Il tema portante del XX secolo è la difficoltà di governare la società di massa. Quindi per capirne gli sviluppi non basta partire dalla Prima guerra mondiale, ma bisogna risalire almeno fino agli ultimi due decenni dell’Ottocento, quando prende piede la seconda rivoluzione industriale, con lo sviluppo smisurato della classe operaia di fabbrica e dei nuovi ceti medi. Cambiano le condizioni di vita materiali, ma anche i costumi e i modi di pensare: si pongono le premesse per rivendicazioni sociali e politiche nuove, che i sistemi politici liberali faticano a fronteggiare, anche nei Paesi dove erano più radicati e solidi, come la Gran Bretagna e la Francia. Poi la Grande guerra porta all’apice queste tensioni e apre la strada all’avvento dei totalitarismi».
In effetti all’indomani del 1918 l’Europa è talmente prostrata dal conflitto che già si stagliano all’orizzonte come protagoniste le superpotenze del futuro: gli Stati Uniti, la cui entrata in guerra è stata decisiva per il successo dell’Intesa, e la nuova Russia rivoluzionaria, attorno alla quale si crea una rete di partiti comunisti attivi un po’ dovunque. Ma Federico Romero, autore di una Storia della Guerra fredda pubblicata da Einaudi nel 2009, invita a non anticipare troppo i tempi: «L’ipotesi di riordino del sistema internazionale avanzata dal presidente americano Woodrow Wilson tramonta quando gli Stati Uniti scelgono l’isolazionismo, restando fuori dalla Società delle nazioni. E anche l’idea della rivoluzione mondiale agitata dai bolscevichi viene fortemente ridimensionata nel momento in cui Stalin sceglie la strada della costruzione del socialismo in un Paese solo. Sarà dopo la Seconda guerra mondiale, quando Usa e Urss occupano militarmente l’Europa in seguito all’annientamento della Germania nazista, che l’antagonismo tra Mosca e Washington, con la Guerra fredda, diventerà il fulcro dello scenario internazionale».
Nel frattempo però c’era stata la stagione del fascismo e del nazismo, fenomeni ai quali la collana Grandangolo storia dedica due volumi specifici. Ed è significativo che sia l’Italia a conoscere per prima un’esperienza del genere: «Il nostro Paese — osserva Simona Colarizi — è l’anello debole nella catena dei regimi liberali. È uno Stato giovane, ha inseguito la potenza attraverso il nazionalismo, le sue masse lavoratrici sono sensibili alle sirene bolsceviche. Nonostante i moniti degli antifascisti democratici, all’estero molti leggono l’avvento di Mussolini come una soluzione positiva della crisi italiana, che sventa la minaccia comunista e permette di governare un popolo riottoso. Ma si tratta di un’illusione, perché il fascismo non è un fenomeno solo italiano, anzi si diffonde in tutta Europa, fino a provocare una guerra al termine della quale il continente è ridotto a un ammasso di macerie».
Per giunta l’Europa del 1945 si avvia a una rigida divisione tra blocchi contrapposti. Ma era davvero inevitabile la Guerra fredda? Romero non ne è convinto: «L’antagonismo di fondo era nei fatti, ma né Mosca né Washington hanno voluto e perseguito il conflitto nei termini aspri in cui si è determinato. Gli Stati Uniti pensavano a forme di collaborazione internazionale che inglobassero anche l’Urss, mentre Stalin sperava di concordare per via diplomatica una risistemazione condivisa dell’Europa. C’è però una diffidenza reciproca che porta a percepire come aggressive le mosse dell’interlocutore, anche quando non vogliono esserlo. Gli angloamericani preferiscono avere una Germania divisa, con la parte occidentale saldamente collocata nel campo liberale, piuttosto che la Germania unita e neutrale in cui sperava il Cremlino. E i risultati insoddisfacenti dei partiti comunisti alle prime elezioni nei Paesi occupati dall’Armata rossa inducono Stalin a promuoverne la sovietizzazione forzata».
Così l’Europa si ritrova spaccata in due: una frattura che però in Occidente, sottolinea Simona Colarizi, presenta anche grossi vantaggi: «Dopo il 1945 Paesi come l’Italia, la Francia, la Germania Ovest si trovano in una condizione protetta, sotto la tutela dell’ombrello nucleare americano. La ricostruzione e il successivo boom economico sono favoriti dal fatto che l’Europa occidentale non ha un problema diretto di sicurezza da gestire con le sue forze, quindi può applicare con successo la ricetta economica keynesiana, che prevede l’intervento dello Stato per favorire lo sviluppo. Ne conseguono molti anni di prosperità, in cui le tensioni della società di massa si stemperano e le istituzioni democratiche si consolidano, rendendo possibile anche il processo d’integrazione avviato all’inizio degli anni Cinquanta e poi accelerato con i trattati di Roma del 1957».
Negli stessi anni, sottolinea Romero, crolla il mito di Stalin e il blocco sovietico mostra la sua debolezza: «Dopo il 1956 e la rivolta ungherese, appare chiaro che in Europa l’Urss non regge il confronto, dinanzi alle condizioni di benessere che i Paesi della Nato garantiscono ai loro cittadini. Allora Mosca gioca le sue carte altrove: per la nazioni del Terzo mondo, che in quegli anni si vanno emancipando dal dominio europeo, il modello sovietico appare in molti casi un esempio da seguire per modernizzarsi e industrializzarsi, sfuggendo ai vincoli della dipendenza neocoloniale. Ma l’illusione dura poco: gli alleati del Cremlino vincono in Vietnam, ma sono sconfitti in Indonesia e in tutta l’America Latina, a parte Cuba. Poi il conflitto tra Mosca e Pechino spacca il fronte comunista. Inoltre l’Urss non offre tecnologie davvero avanzate né mercati di sbocco, mentre l’Occidente, con l’avanzare della globalizzazione, si dimostra capace d’integrare aree sempre più vaste del mondo nella sua sfera d’influenza produttiva e finanziaria».
Così il blocco sovietico si avvia alla disgregazione. Ma l’Europa di Bruxelles, avverte Simona Colarizi, non può cantare vittoria: «La globalizzazione manda in crisi anche le politiche keynesiane, basate su un’alta pressione fiscale, perché espone le economie europee a una forte concorrenza internazionale. Per giunta la fine della Guerra fredda porta nuove responsabilità a cui l’Europa non è preparata, come dimostra la sua vergognosa impotenza di fronte alla crisi jugoslava. Si apre perciò, nell’ultimo scorcio del Novecento, la fase d’incertezza in cui viviamo ancora oggi».