lunedì 24 agosto 2015

Corriere 24.8.15
Convivere con la paura è combattere il terrore
di Guido Olimpio


Contro il terrorismo «facile», spesso condotto con un atto individuale, è difficile trovare la risposta. È questa la lezione degli episodi violenti che hanno insanguinato i Paesi occidentali, dagli Usa fino in Australia. Bisogna abituarsi a convivere con una minaccia a basso costo, una forma di estremismo dove il criminale spende poco ma ottiene il massimo dei risultati. Sparge angoscia, insicurezza, odio.
La percezione del cittadino è che alla fine non c’è angolo della propria esistenza dove trovare riparo. I terroristi, purtroppo, fanno il loro mestiere. Non sono sofisticati come i prescelti da Osama bin Laden per l’assalto all’America dell’11 settembre. Oggi sono più agili e rapidi nel portare a termine missioni costruite sulla base di piani grezzi, quasi abbozzati, mai condivisi. Operazioni lanciate senza preoccuparsi delle vie di fuga, di nascondigli o della rete logistica. Ideazione ed esecuzione sono limitati al minimo, così come le armi. A volte non ci sono neppure quelle, visto che il jihadista si accontenta della sua auto per investire la folla. Niente grandiosità di un progetto che deve stupire, solo voglia di colpire.
Si discute, anche aspramente, sulla necessità di nuove misure di protezione. E l’episodio del treno Amsterdam-Parigi spinge qualcuno a chiedere controlli simili a quelli adottati negli aeroporti. Ma è possibile vigilare su ogni convoglio ferroviario che attraversa i Paesi europei? La risposta è scontata. E se domani sparano su un tram invocheremo uno scudo anche per quello? Serve vigilare, stare in guardia, senza però pensare di riuscire a blindare luoghi dove si concentrano migliaia di persone.
Molti degli attentatori erano noti alla polizia. Dettaglio che si porta dietro polemiche e strumentalizzazioni sintetizzate dalla frase «perché non lo hanno fermato prima». È giusto chiedere ai servizi di sicurezza una maggiore attenzione, è ingiusto pensare che possano parare ogni colpo. Per tre motivi. Una semplice segnalazione non trasforma un individuo in un terrorista. L’attentatore diventa tale solo nel momento in cui passa all’azione. I numeri da controllare sono imponenti, con personaggi altamente mobili. Oggi sono a Parigi, due giorni dopo li trovi al confine siriano. E viceversa.
Al tempo stesso è evidente che «marcare» una persona come sospetta non è più sufficiente, la famose liste nere sono gonfie di nominativi. Per salvarsi l’anima lo inseriscono nell’elenco, così se qualcuno chiede conto potranno dire: lo avevamo detto. Questo però non disinnesca la bomba, non neutralizza le raffiche di mitra, non evita il peggio.
Allora bisogna investire — con risorse concrete — nella prevenzione, nello scambio di dati tra Paesi amici per tracciare i movimenti, in un’intelligence capace di reclutare informatori, le vedette di una prima linea invisibile che dovrebbe aiutare a distinguere tra il pericolo potenziale e la falsa pista. Consapevoli, però, che non esiste la certezza che il signor X domani uscirà di casa e invece di recarsi al lavoro impugnerà il kalashnikov. È un killer ben mimetizzato.
Quanto a noi la risposta migliore è quella della normalità. Sappiamo che c’è un pericolo (non l’unico e neppure il principale), ma dobbiamo superarlo vivendo. Il terrorista vuole negarci gli spazi insanguinando trasporti, ristoranti, strade. Chi lo ispira spera anche di provocare ritorsioni, leggi speciali, provvedimenti eccezionali. Vuole uccidere, dividere la società, esasperare i rapporti. Allora il dispetto più grande che gli possiamo fare è dimostrare che non abbiamo paura.
@guidoolimpio