venerdì 21 agosto 2015

Corriere 17.8.15
Il gruppo conta più dei geni. Animali sociali si diventa
Nuovi argomenti sulle dinamiche collettive in atto nelle specie
di Edoardo Boncinelli


Comprendere l’essenza della natura umana e i diversi processi che a essa hanno condotto, costituisce uno dei problemi più interessanti e «saporiti» di tutta la scienza, soprattutto considerando che anche il funzionamento della mente, l’altro problema capitale oggetto della nostra legittima curiosità, è a tutto questo strettamente collegato. Sul piano sperimentale, le più recenti scoperte si aggiungono a quelle dell’altro ieri con ritmo incalzante, ma anche la riflessione teorica sta facendo la sua parte, rivedendo antichi cliché e proponendo nuovi percorsi di pensiero. Vediamo di che si tratta.
La vita procede sempre su una molteplicità di scale dimensionali diverse e intrecciate tra di loro; se così non fosse, la vita stessa si arresterebbe all’istante. I rispettivi livelli degli atomi, delle molecole, dei patrimoni genetici tramandati, degli organelli cellulari, delle cellule, degli organi, degli apparati, degli organismi, dei gruppi più o meno ampi, delle popolazioni, delle comunità, degli ecosistemi, e magari della biosfera, devono essere sempre tenuti presenti più o meno contemporaneamente, se si vuole capire il fenomeno vita nella sua essenza. Alcuni di questi livelli sono anche soggetti a un processo di selezione e quindi a un’evoluzione nel tempo. Almeno così pare con sempre maggiore evidenza.
Tutti i livelli ora ricordati contengono entità in competizione tra di loro, che evolvono, anzi spesso coevolvono — cioè evolvono insieme, come la forma di una chiave e quella della sua serratura — ma per poter parlare con proprietà di selezione e di evoluzione, occorre la presenza di un messaggio genetico codificato e alterabile, e di una sua realizzazione in un progetto vitale che si trovi a entrare in competizione con altri. Le entità che soddisfano questi requisiti sono indubbiamente gli organismi, ma si può parlare, e si è parlato, anche di selezione al livello dei geni e a quello dei gruppi. Pare oggi sempre più chiaro che una selezione a livello del gruppo, oltre che a quello degli individui, è essenziale per comprendere l’emergere in natura di una socialità avanzata, almeno in certe specie, fra cui la nostra. Una socialità veramente avanzata, altrimenti detta eusocialità , è presente in non più di una ventina di linee evolutive, compresa la nostra. Più della metà di queste sono rappresentate da insetti, e più precisamente dai cosiddetti insetti sociali, come le formiche, le termiti o le api, considerati da tempo un modello (invidiabile?) di comportamento autenticamente sociale.
È chiaro che un comportamento di tipo sociale, che implichi cioè anche la presenza di una certa dose di altruismo — anche se io non amo usare questo termine — e di spirito collaborativo, è abbastanza in antitesi con una spiegazione darwiniana della selezione, tutta tesa all’ottimizzazione delle condizioni dell’individuo in questione. Darwin stesso si accorse di questo apparente paradosso, anche se poi affermò: «Questa difficoltà, sebbene appaia insuperabile, si riduce o, come credo, scompare, quando si ricordi che la selezione può applicarsi alla famiglia, così come all’individuo, e può così raggiungere lo scopo desiderato». Per spiegare la comparsa di un certo grado di socialità occorre quindi probabilmente qualcosa di più di un semplice processo di selezione naturale sull’individuo. Ma che cosa?
Premettendo che non è affatto necessario che sia lo stesso meccanismo biologico che ha condotto alla socialità avanzata in linee evolutive diverse, si è parlato negli ultimi cinquanta anni di almeno due tipi di spiegazione diversi, esposti con grande chiarezza da Edward O. Wilson nel suo recente Il significato dell’esistenza umana (Codice edizioni). Nelle parole dell’autore queste sono la cosiddetta «teoria della fitness inclusiva» vecchia ormai di cinquant’anni, e la più recente proposta di una «selezione multilivello» elaborata in dettaglio solo cinque o sei anni fa da vari autori, fra i quali spicca Wilson stesso.
Fin dall’inizio della teoria dell’evoluzione si chiama fitness , o idoneità biologica, il grado di adattamento di un certo individuo all’ambiente in cui vive. Nel trattamento matematico dei diversi problemi evolutivi, la fitness è rappresentata da un numero proporzionale alla quantità di figli che quell’organismo è atteso lasciare in quell’ambiente: da un individuo con una fitness alta ci si aspetta che lasci molti figli, mentre da un individuo con una fitness bassa ci si attende che ne lasci meno. Un individuo con una fitness nulla non dovrebbe in teoria lasciare alcuna prole, naturalmente in quell’ambiente, perché in un altro la sua fitness potrebbe essere diversa, anche di molto. Utilizzando questo strumento concettuale, nella teoria evolutiva classica fila tutto liscio.
Per tentare di spiegare la progressione degli individui appartenenti a una determinata linea evolutiva verso un certo grado di socialità, il genetista inglese William D. Hamilton propose cinquanta anni fa una sua teoria che guadagnò subito una buona popolarità. Ogni individuo viene selezionato sulla base di una definizione di fitness che tenga conto anche del potenziale grado di adattamento dei suoi parenti più stretti: la fitness inclusiva appunto, che andrebbe sempre utilizzata quando si voglia prendere in considerazione anche una «selezione della parentela». Utilizzando la fitness inclusiva si viene a tenere conto del grado di adattamento dell’individuo che si sta studiando, ma anche in certa misura della sua propensione alla cooperazione e a una condotta coordinata con quella dei suoi parenti geneticamente più stretti.
È chiaro che a lungo andare tutto questo premia un certo grado di socialità: io tendo al mio interesse, ma anche, seppure in misura minore, all’interesse dei miei consanguinei. Questa ipotesi appare verosimile e potrebbe spiegare particolarmente bene l’evoluzione verso l’eusocialità di quelle specie molto singolari i membri delle quali si trovano a condividere più della metà del loro genoma, come nel caso di alcuni insetti sociali. Un formicaio e un termitaio — veri e propri superorganismi con la loro mirabile «meccanica» sociale — appaiono essere fotografati egregiamente da questo approccio.
La teoria della fitness inclusiva ha dominato per anni la biologia teorica, contribuendo a risolvere molte questioni controverse, ma presenta almeno due difetti: sembrano procedere verso l’eusocialità anche specie che non godono del vantaggio particolare di avere individui che condividono più del cinquanta per cento del loro patrimonio genetico e, soprattutto, i calcoli non tornano sempre, difetto grave per una teoria che mirava a spiegare l’evoluzione di un vasto panorama di linee evolutive che procedevano spontaneamente verso l’eusocialità. Di qua dell’Atlantico molti sono ancora convinti che la teoria sia estremamente utile, se non risolutiva, mentre in America si è cominciato da qualche anno a contestare almeno in parte tale impostazione.
Ecco che allora al di là dell’Atlantico viene proposta l’idea di una selezione multilivello, non nuova in verità, ma riempita di nuovi contenuti e arricchita dal contributo di nuove argomentazioni. L’esistenza di un gruppo al quale si fa riferimento diviene sempre più evidente nella linea evolutiva che porta a noi. Nulla vieta che del gruppo faccia parte anche la famiglia, anche senza la stupefacente condivisione dei geni tipica di alcuni insetti sociali, ma il gruppo non deve formarsi necessariamente su una base di somiglianza genetica; è di per sé un fenomeno sociale che segue una dinamica collettiva. Se io sono guidato dal mio stesso interesse, ma anche, pure se in misura minore, dall’interesse del gruppo al quale appartengo, tenderò più o meno istintivamente a comportarmi in maniera che può essere definita più sociale. Questa spinta verso la socialità sarà comunque inferiore a quella per la sopravvivenza dell’individuo stesso e infatti l’eusocialità si va affermando, quando si va affermando, molto molto lentamente. Una spinta decisiva sarà venuta probabilmente infine dall’utilizzazione diffusa dei feromoni e dall’emergere di azioni — per esempio «danze o voli» — ritualizzate per gli insetti sociali, e dall’emergere di un linguaggio articolato per la nostra specie.
Chi non ama questo tipo di spiegazioni, diciamo così, biologiche e preferisce invocare l’azione della storia, si ricordi che gli eventi biologici di cui abbiamo parlato riguardano un periodo di milioni e milioni di anni, mentre la storia, per quanto importante possa essere la sua azione, riguarda al massimo gli eventi che occupano qualche millennio. Unita all’apprendimento, la nostra progressione verso l’eusocialità ha poi prodotto la cultura, il nostro massimo vanto, veramente unico, quasi per definizione, e capace di farci «scattare» davanti a ogni altra linea evolutiva.
Noi uomini siamo spesso lacerati da dissidi interni. Moltissimi sono generati dal contrasto fra cultura e natura, ma alcuni, nota Wilson, possono affondare le loro radici nell’eventuale contrasto fra selezione individuale e selezione di gruppo. Insomma, la propensione per i dissidi e i contrasti interni è una caratteristica che ci definisce più di molte altre. Non lamentiamoci quindi a ogni pie’ sospinto!